Abitudine

Viviamo in un’epoca e in un mondo in cui ci si abitua a tutto e forse proprio alla sua straordinaria capacità di “abituarsi”, la nostra specie umana deve la propria sopravvivenza a dispetto e nonostante tutto e tutti, anche se stessa.

Siamo stati creati, oppure ci siamo evoluti da specie diverse, secondo due ipotesi contrastanti, e i nostri progenitori, i nostri avi vivevano nelle caverne o sulle palafitte, cacciavano e si procuravano il cibo con strumenti rudimentali, mangiavano carne cruda e si coprivano di pelli e in pochi secoli le nostre abitudini e i nostri stili di vita sono mutati enormemente, in maniera impensabile ed inimmaginabile.

Ma noi siamo rimasti sostanzialmente gli stessi. Salvo poche piccole, superficiali, epidermiche differenze, l’uomo, l’essere umano è rimasto eguale, identico a se stesso, fuori e soprattutto dentro, nel proprio intimo, nella propria essenza, nella propria psiche.

E proprio quella stessa psiche è costruita, è strutturata in modo e maniera che ci si possa abituare a tutto, o quasi a tutto, anche alla morte, degli altri, naturalmente, perché a quella nostra non v’è tempo e modo per abituarcisi.

E proprio a quella morte, a quella degli altri, in questi tempi ci siamo abituati straordinariamente, perfettamente, in maniera indolore, favoriti in questo dalla immensa capacità e potenzialità dei mezzi di comunicazione che ci mettono a contatto, in un attimo e in tempo reale, come si usa dire oggi, con le immagini, spesso sconcertanti che ci giungono da lontanissimo, dalla altra faccia del mondo, che ci fanno assistere in diretta ad eventi catastrofici, quali inondazioni, terremoti, incendi, guerre, devastazioni ed altre sciagure, naturali e non, come se fossimo al cinema, assistendo ad un film di fantascienza, per vedere il quale abbiamo pagato il biglietto e lo abbiamo scelto volontariamente tra tanti altri.

Che differenza, infatti, dovrebbe fare, per la nostra coscienza, assistere ad uno spettacolo devastante, di fantasia, proiettato sullo schermo del cinematografo e uno spettacolo altrettanto devastante, ma di realtà, proiettato sullo schermo del nostro televisore domestico, sempre più somigliante ad uno schermo cinematografico, mentre mangiamo la domenicale lasagna o gli spaghetti con le vongole?

Che emozione, sconcerto, raccapriccio potrebbe suggerirci l’immagine di profughi in fuga da terreni devastati dalle acque impazzite, da tifoni e fortunali tropicali, dallo tsunami, di cui fino a poco prima ignoravamo l’esistenza?

Che sconvolgimento dovrebbe procurarci l’immagine dolorosa di soldati feriti e deceduti in Afghanistan, se le stesse immagini ci sono familiari nei film di guerra?

Per non parlare poi delle “morti annunciate e programmate”, quelle del sabato sera all’uscita dalle discoteche, o quelle apocalittiche del mese di agosto, suddivise ragionieristicamente in bilancio dell’esodo, per le vacanze e del controesodo, quasi che fosse un contributo fisso, un sacrificio umano inalienabile ed ineluttabile, ineludibile che gli umani sono tenuti a pagare, ogni anno al dio delle vacanze, il cui totem potrebbe essere rappresentato da un ombrellone piantato su una spiaggia assolata e gremita, un motoscafo velocissimo che sfreccia in mezzo ai bagnanti, una tavola da surf.

Ci sono poi, su un piano totalmente diverso, le morti di persone che, ignorate e sconosciute da vive, divengono famose solo quando non esistono più tra noi, per mano di altri, che li tolgono, li asportano, li escludono dal consesso umano e spesso rimangono misteriose e non risolte, almeno per quanto riguarda la giustizia degli uomini.

Tornano alla ribalta, proprio in questi giorni, l’omicidio irrisolto di via Poma a Roma e la vittima protagonista, Simonetta Cesaroni, che ancora attende giustizia e con Lei, in un tragico connubio Emanuela Orlandi, le Cui foto tappezzarono l’Italia. Si celebra il processo per il delitto di Perugia, che ha sconvolto il mondo studentesco e che ha portato all’onore delle cronache una città famosa per l’Università appunto e per la cioccolata.

I periti dell’una e dell’altra parte giocano una macabra partita, per ora senza vinti né vincitori, sul terreno di gioco del delitto di Garlasco, anche esso funestato da una vittima giovanissima.

 E per non far torto a nessuno e unire l’Italia, anche sotto questo aspetto, in un clima di celebrazioni per il 150° anniversario della Sua Unità, a Napoli un killer della camorra uccide davanti ad un bar e sotto gli occhi di tutti, ma anche delle telecamere, un pregiudicato, tranquillamente appoggiato al muro a fumare una sigaretta. Le telecamere registrano tutto e così assistiamo, beati noi, alla morte in diretta, ad un omicidio in diretta, ma anche, e ciò è ancora più sconcertante, se possibile, assistiamo alla tranquilla, serena, disinteressata indifferenza, di chi prosegue per la sua strada e scavalca addirittura, con abile maestria, il corpo della vittima agonizzante sul marciapiede.

Ma si sa, a questi spettacoli si è talmente abituati, che non possono suscitare altro che olimpica indifferenza.

La stessa indifferenza che ha contraddistinto i cittadini pochi mesi orsono, quando hanno assistito, senza minimamente scomporsi, all’omicidio, nella stazione della metropolitana di un uomo, suonatore ambulante di fisarmonica, ucciso per sbaglio, anch’egli sotto l’occhio imperturbabile delle telecamere, che hanno impietosamente registrato, per noi, la sua morte e ancor peggio il nostro disinteresse per uno spettacolo così banale ed usuale da non suscitare nessuno stupore e nessuna emozione.

Unica evidente, visibile preoccupazione, timbrare il biglietto per non correre il rischio di perdere il treno. E intanto un uomo moriva, mentre la moglie chiedeva invano aiuto.

E che dire di Brenda, il transessuale brasiliano incappato nel caso Marrazzo, non si sa ancora se morta suicida, o “suicidata” da altri, ma comunque colpevole di essere nata in un corpo sbagliato, di essersi trovata invischiata in cose più grandi di lei, di aver conosciuto persone pericolose?

In questo ultimo anno che volge ormai quasi al termine, gli dei non sono stati pietosi con la nostra povera Italia e ci hanno chiesto un contributo straordinario di vittime, di morti, oltre a quelle ordinarie e programmate. Il terremoto dell’Aquila e dell’Abruzzo, la strage dei nostri paracadutisti a Kabul, il disastro di Messina e dei paesi limitrofi, la scomparsa dei nostri militari nel C-130 a Pisa, e l’anno non è ancora terminato.

Ma anche a queste morti ci stiamo abituando, ci siamo abituati alle immagini della devastazione dell’Aquila, si è spento l’eco degli squilli di tromba del Silenzio fuori ordinanza, per i morti di Kabul e già iniziano le polemiche e le proteste dei sopravvissuti siciliani.

Ci si abitua, ci si adatta, secondo un copione scontato e conosciuto, si gira pagina e….la vita continua….come è giusto forse, come è doveroso, come è nell’ordine delle cose.

“Chi muore tace e chi è vivo si dà pace”, secondo un vecchio proverbio che recitava mia nonna quando c’era bisogno di una consolazione a buon mercato.

Ma vi sono morti che non tacciono, morti che non danno pace a chi vive ancora, se è dotato, fortunato o sfortunato, a lui la scelta, di una coscienza umana.

Vi sono morti che continuano a gridare il proprio dolore, il proprio sconcerto, la propria solitudine, il proprio dramma interiore.

In genere non sono morti collettive, non sono morti gloriose, nel senso comune del termine, non sono morti che meritano uno spazio in televisione o alla radio, morti di cui non si parla per giorni e giorni, che non meritano i funerali di Stato con la presenza delle Autorità, ma che, se vengono ricordate, meritano appena un trafiletto sul giornale locale, nella cronaca della città, se proprio avanza spazio e c’è bisogno di riempirlo.

Ma sono morti che lasciano il segno nelle nostre coscienze, se le abbiamo, nel nostro animo, nel nostro cuore, se ancora ci sentiamo di appartenere al genere umano e non abbiamo ancora abdicato a questa prerogativa.

Sono morti di persone semplici, anonime a volte, morti che interrompono vite normali, abituali, stancamente e pedissequamente condotte, vite di tutti i giorni, grigie, incolori, scialbe, segnate e caratterizzate da quegli atti comuni che tutti ci contraddistinguono e ci accomunano.

Morti che interrompono, con la loro drammaticità, la continuità, la semplicità, la normalità di una vita, apparentemente senza scosse e senza traumi, perché i dolori intimi, interiori, pudicamente, modestamente, vengono vissuti e sopportati in silenzio, nel chiuso del proprio cuore e del proprio animo, per una sorta di innato pudore e quasi vergogna della propria sofferenza; ma sono morti che innalzano, che elevano chi ha vissuto una vita nell’ombra e nel silenzio, che non si è mischiato al clamore di chi protesta a gran voce, che innalzano, dicevo, al ruolo di eroi, di eroi silenziosi, pudichi, timidi, vergognosi, persone che hanno vissuto silenziosamente e senza neppure saperlo, da eroi e che testimoniano “il coraggio e l’eroismo di tutti i giorni”.

Il coraggio e l’eroismo di una madre che lascia marito e figli in un paese lontano per venire a fare la badante ad una persona anziana, di cui non conosce neppure la lingua di un uomo che lascia la moglie e la figlia appena nata nella miseria dello Shri Lanka per venire a fare il cameriere in una città come Roma, di cui prima non sospettava neppure l’esistenza, il coraggio di una vedova che si adatta ad ogni mestiere per far studiare i figli, di un fratello che sacrifica quotidianamente la propria esistenza per prendersi cura, una volta morti i genitori, del proprio fratello Down, di mariti o mogli anziani che continuano ad essere vicini al proprio coniuge, ridotto ormai ad un demente dal morbo di Alzheimer, .

Ci sembrano pagine, episodi, usciti dal tanto vituperato Libro Cuore di Edmondo De Amicis, da Dickens, da Victor Hugò, ma tuttora presenti e vivi, conosciuti da chi frequenta e conosce l’umanità nell’intimo e non si ferma alla superficie, proposta dal Grande Fratello, o dall’Isola dei Famosi, cosiddetti Reality, con termine orgogliosamente anglosassone, ma che di realtà non hanno proprio nulla.

Per scovare, per riconoscere, per scoprire questi “eroi di tutti i giorni”, non è necessario andare lontano, non è necessario avere lo spirito e le capacità di un provetto detective, non è necessario riferirci alle Vite dei Santi.

Basta, è sufficiente guardarci attorno, osservare, ascoltare le persone, guardarle negli occhi, vederle fare la spesa al mercato, o la fila alla cassa del supermercato, osservarle mentre confrontano i prodotti alla ricerca di quelli più economici, non spazientirsi, ma attendere con educazione che si orientino tra le monete che trovano nel borsellino e delle quali ancora non hanno imparato a riconoscerne il valore.

Basta leggere i giornali, ma non le pagine della politica, internazionale o nazionale e men che meno quelle dello sport, o degli spettacoli, ma le pagine di cronaca, quelle nelle quali vengono narrati e racchiusi, scelti, non secondo l’importanza o l’interesse, ma secondo una misera logica degli spazi da riempire, gli avvenimenti, i drammi, le miserie di esseri umani qualunque, non degni di interessare i molti, ma utili per occupare un angolino della pagina, che sarebbe disdicevole e antiestetico lasciare in bianco.

Amo questi angolini, amo questi aspetti minimalisti della cronaca e delle notizie, perché molto meglio e molto più sinceramente dei tanti discorsi e delle parole inutili di persone autorevoli, mi danno il metro e la misura del mondo in cui mi trovo, temporaneamente, a vivere.

Ho parlato prima di morti, che spesso danno un senso ed una dignità ad una vita oscura, schiva, nascosta, pedissequamente vissuta, occultata, per pudore o per vergogna, ma non per questo, meno eroica e coraggiosa di tante altre che conosciamo e si mostrano fin troppo.

Il fatto risale a due mesi fa, ma è rimasto ben presente nel mio animo e nel mio cuore, nonostante i miei infruttuosi tentativi per cancellarlo, perché troppo doloroso.

Nel popolare quartiere romano di Centocelle, un pensionato di 76 anni, L.S. affoga la figlia invalida al cento per cento, nel lavandino di casa e subito dopo si getta dal balcone del suo appartamento al quinto piano.

Due giorni prima gli era stato diagnosticato un tumore che lo avrebbe condotto rapidamente e inesorabilmente alla morte e ha ritenuto di non poter lasciare il peso e l’onere della unica figlia, gravissimamente disabile, alla moglie, anziana e anch’ella ammalata.

L.S. ha atteso che la moglie si assentasse un momento per recarsi in farmacia e ha messo in atto lo “insano gesto” come si sarebbe detto una volta.

Approfittando della brevissima assenza della moglie ha trascinato la figlia G. di 46 anni in bagno, e ha immerso il suo viso nel lavandino pieno d’acqua.

La moglie M. appena rientrata lo vede nel momento in cui sta scavalcando la balaustra del balcone per gettarsi nel vuoto, ma non può far nulla per fermarlo.

Corre in strada, appena in tempo per vederlo ancora una volta, una ultima volta vivo, per ricevere il suo ultimo abbraccio e per abbracciarlo a sua volta, per pronunciare le ultime parole al marito, di amore e comprensione, di perdono, se fosse necessario: ”Lo so che lo hai fatto per me, ma non dovevi”.

Vorrei dire ancora tante cose, tante parole, ma mi sembrerebbero inutili e blasfeme, inadatte e fuori posto di fronte a questo dramma così profondamente umano.

Un solo interrogativo: “Ma in che mondo viviamo?”.

Domenico Mazzullo

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