Eletroshock

La parola Elettroshock non richiede spiegazioni etimologiche, né richiami al greco antico, o al latino, per individuarne l’origine. Nella crudezza dei termini che la compongono, è ampiamente racchiusa la sua natura, ma anche il suo destino. Mai, infatti, nella Storia della Medicina, una pratica medica, una terapia, perché di tale si tratta, è stata così demonizzata, denigrata, idealizzata al negativo nell’immaginario collettivo, discussa e criticata, per lo più senza cognizione di causa, senza alcuna conoscenza in proposito, in piena e totale ignoranza, ma con inaudita prosopopea e presunzione, come l’elettroshock. Complici di tali atteggiamenti negativi, sono stati, alcuni prodotti cinematografici, meglio detto sottoprodotti, i quali, giocando su un facile impatto emotivo, hanno avuto presa e successo, diffondendo e promovendo un’immagine assolutamente falsa e tendenziosa della Psichiatria in genere e d’alcune sue pratiche terapeutiche in particolare, avvalorando quindi pregiudizi e preconcetti comuni, a tutto danno, non degli psichiatri, ma in ultima analisi dei loro pazienti.

Siccome sono abituato a dire nome e cognome delle persone che critico e non a parlare per sottintesi, mi sto riferendo, per chi non lo avesse ancora capito, al famoso film “Qualcuno volò sul nido del cuculo”.

Mi è sembrato opportuno quindi, per amore di verità, inserire anche la voce Elettroshock, in questo dizionario della psiche.

Per ben comprendere la natura e la reale importanza di tale pratica terapeutica, è necessario tornare indietro nel tempo, e narrarne la storia dalle origini, cosa che io mi accingo a fare, così come a me, giovane specializzando, la narrò il mio Professore, Che in gioventù era stato allievo, dei professori Ugo Cerletti e Lucio Bini, inventori di questa terapia, ormai nel lontano 1938.

Come tutte le storie che si rispettano, anche questa inizia con un “c’era una volta……”

“C’era una volta, in Medicina, rispetto ad una patologia specifica, un grande equivoco e su quest’equivoco vennero ideate delle terapie, il cui successo, per cause del tutto diverse da quelle che si credevano vere, avvalorò sempre di più l’equivoco iniziale.

Cercherò d’essere più chiaro. Tutti conoscono la purtroppo diffusa malattia epilessia, la cui manifestazione più chiara, eclatante e drammatica è la crisi convulsiva.

Solo gli specialisti in Neurologia però sanno, che esiste una forma rara d’epilessia, la quale si manifesta, o con periodi in cui sono presenti le classiche crisi convulsive, improvvise quanto drammatiche, oppure ed alternativamente a queste, con periodi, anche prolungati e durevoli nel tempo, in cui il paziente è in preda a deliri, allucinazioni, impulsi aggressivi e distruttivi, senza però che si verifichi alcuna crisi convulsiva.

I medici di fine ‘800, di fronte a questi pazienti, pensarono, e qui è il primo equivoco, non che si trattasse della medesima malattia esprimentesi con due modalità diverse ed alternative, come poi, solo dopo molti anni, risultò vero, ma di due patologie diverse, sovrapponentesi ed intersecatesi l’una con l’altra, nello stesso paziente.

Si pensò, infatti, che questi poveri pazienti, particolarmente sfortunati, fossero affetti contemporaneamente da due malattie diverse e distinte: l’epilessia, responsabile delle crisi convulsive e la schizofrenia, responsabile degli episodi di delirio, allucinazioni, violenza contro gli altri e se stessi.

Il secondo equivoco fu provocato dalla constatazione evidente, che durante i periodi di crisi convulsive, i deliri e le allucinazioni erano completamente assenti. Ciò portò all’ipotesi, non che di una stessa malattia si trattasse, come invece poi risultò vero, con due modalità d’espressione diverse ed alternative, ma che delle due malattie che si credevano presenti, l’epilessia e la schizofrenia, l’una escludesse l’altra, o meglio l’espressione dell’una, le convulsioni, impedissero l’espressione dell’altra, i deliri, le allucinazioni, la violenza verso se stesso e gli altri.

Si credette, in poche parole, che le convulsioni impedissero, proteggessero, guarissero dal delirio, dalle allucinazioni, dalle crisi di violenza, manifestazioni tipiche della schizofrenia.

Ma allora, giustamente, si chiesero i medici di quel tempo, perché non curare i pazienti affetti, fortunati loro, solamente dalla schizofrenia, provocando artificialmente le convulsioni, che nei malati precedentemente citati, insorgendo spontaneamente, risultavano così efficaci sul delirio e le allucinazioni?

La risposta terapeutica a quest’ipotesi, fu naturalmente quella di provocare artificialmente le convulsioni, in pazienti schizofrenici, in preda al delirio ed alle allucinazioni.

Vennero quindi messe in pratica varie terapie, le quali avevano tutte quante il fine comune di provocare, nel paziente schizofrenico, artificialmente, brevi e transitori episodi convulsivi.

Tali pratiche terapeutiche appartengono ora alla Storia della Medicina e le cito brevemente per far comprendere al lettore come, nelle nebbie fitte della malattia mentale, si procedesse “tentoni” e tuttora ancora in alcuni casi si procede, inventando, sperimentando, fallendo, sbagliando, incorrendo in equivoci ed errori, ma con il solo, unico fine e scopo, di giovare al paziente, essere umano meno fortunato di noi, ai quali spetta unico, il grave compito e dovere di guarirlo, o almeno di alleviarne le sofferenze.

Le brevi e transitorie crisi convulsive, a scopo terapeutico, vennero dapprima provocate con l’iniezione endovenosa d’acetilcolina (shock acetilcolinico di Fiamberti), poi inducendo nei pazienti un forte rialzo della temperatura corporea, la febbre, per intenderci, che ad un certo livello provoca appunto crisi convulsive. Tale risultato venne ottenuto, in un primo tempo, infettando il paziente con il plasmodium vivax responsabile della malaria terzana benigna (Malarioterapia) e delle conseguenti crisi febbrili Dopo un ciclo di circa 10 accessi febbrili, la malaria veniva bloccata con la somministrazione di chinino.

Solo successivamente gli accessi febbrili e conseguenti crisi convulsive, vennero provocati con mezzi più maneggevoli, quali sostanze proteiche e vaccini (Piretoterapia).

Allo scopo di provocare le crisi convulsive, che si riteneva avessero un valore terapeutico, come abbiamo detto, nella schizofrenia, venne praticata anche, per un certo periodo di tempo, la Cardiazolterapia consistente nell’iniettare per via endovenosa, il Cardiazol e provocare quindi un episodio convulsivo in media due volte per settimana, per un totale di circa 10 applicazioni. Tale pratica però risultò pericolosa per il paziente e venne sostituita, dopo poco tempo, dall’Insulinoterapia, introdotta nella clinica da Sakel nel 1927 per il trattamento della schizofrenia. La tecnica consisteva nell’iniezione di dosi progressivamente crescenti d’insulina fino ad ottenere un coma ipoglicemico, con conseguenti crisi convulsive. Ottenuto lo scopo della crisi convulsiva, il coma veniva naturalmente, immediatamente risolto, con la somministrazione endovenosa di glucosio.

Da quanto detto in precedenza risulta evidente, come lo scopo esplicito di tutte queste terapie fosse quello di provocare nel paziente schizofrenico, artificialmente le crisi convulsive, nella convinzione che tali crisi convulsive, artificialmente indotte, agissero positivamente sui deliri e le allucinazioni, basandosi gli psichiatri sulla constatazione, come abbiamo precedentemente visto, che nei pazienti nei quali esse si verificavano spontaneamente, durante tali crisi i deliri e le allucinazioni erano del tutto assenti.

L’ipotesi delle crisi convulsive, come antidoto e cura dei deliri e delle allucinazioni era del tutto errata, come abbiamo visto, ma lo si sarebbe scoperto solo molto più tardi, mentre la constatazione, tuttora inspiegabile, da parte degli psichiatri di allora, che tutte queste terapie fossero, seppur temporaneamente efficaci, sui sintomi della schizofrenia, avvalorò sempre di più l’ipotesi che le convulsioni fossero un vero e proprio strumento terapeutico atto se non a guarire, almeno ad interrompere, per un lasso di tempo più o meno lungo, la sintomatologia schizofrenica. Si continuò quindi a procedere sulla strada di cercare mezzi sempre più innocui e sicuri per provocare brevi accessi convulsivi nei pazienti schizofrenici.

E con questo arriviamo ai professori Cerletti e Bini i Quali, per primi, si era nel lontano 1938, pensarono di provocare le crisi convulsive nei pazienti schizofrenici per mezzo del passaggio d’energia elettrica di un certo voltaggio (130-140 V) e per un tempo brevissimo (6-8 decimi di secondo) nel cervello, attraverso elettrodi posti sul capo. Tale tecnica d’esecuzione venne applicata per la prima volta nella Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma su di un agente di P.S. affetto da schizofrenia.

Anche questa volta, l’ipotesi rivelatasi poi errata, delle convulsioni come antidoto dei sintomi schizofrenici, venne confermata dai, seppur temporanei, successi terapeutici e l’elettroshock, allora giustamente denominato “terapia elettroconvulsivante”, si diffuse in tutto il mondo, come unica terapia valida ed efficace, atta, non a guarire, ma almeno ad interrompere, a bloccare, seppur temporaneamente il procedere della malattia schizofrenica.

Non era certo piacevole, né per il paziente che lo subiva, né per il medico che lo provocava, l’accesso convulsivo, ma si riteneva che fosse comunque il male minore, sempre messo in atto a scopo terapeutico, rispetto al male ben maggiore della malattia schizofrenica, con tutto ciò che essa comporta.

Purtroppo, dall’ignoranza della materia, dei fatti e degli scopi, oltre che da preconcetti e pregiudizi, è nata la fama, tuttora in uso e completamente ingiustificata, dell’elettroshock come strumento di tortura, quasi che tutti gli psichiatri fossero dei sadici torturatori felici solo di far soffrire i propri malcapitati pazienti.

Solo dopo anni, che la terapia elettroconvulsivante, unica terapia a disposizione in era, lo ricordo, prefarmacologica, si era diffusa in tutto il mondo, si scoprì, non senza sorpresa, l’equivoco, o meglio gli equivoci di cui abbiamo riferito prima, e si comprese quindi che le convulsioni, spontanee e tantomeno indotte, nulla avessero a che fare con i sintomi della schizofrenia.

Ci si rese conto che le convulsioni, fossero esse indotte dal Cardiazol, dalla febbre, dall’ipoglicemia, o dalla corrente elettrica, nulla avessero a che fare con i deliri e le allucinazioni.

Ma allora, giustamente ci si chiese, perché tali terapie funzionavano? Perché i pazienti sottoposti a Cardiazolterapia, Insulinoterapia, Malarioterapia o Piretoterapia, o Terapia elettroconvulsivante, miglioravano, anche se solo temporaneamente? La domanda è rimasta purtroppo ancora insoluta, ma si pensa che il miglioramento fosse dovuto all’effetto genericamente traumatico, di shock, nel senso letterale del termine, che tali terapie provocavano nell’organismo.

Maggiormente si è indagato a carico dell’Elettroshock, da quel momento in poi, non più terapia elettroconvulsivante, e si pensa che l’effetto terapeutico di questo, sia legato alle modificazioni biologiche che il passaggio della corrente elettrica provoca nel sistema nervoso. Recenti ricerche hanno dimostrato, dopo l’elettroshock, modificazioni nei livelli cerebrali dei neurotrasmettitori, analogamente a quanto si verifica con gli psicofarmaci.

La scoperta, ovviamente, che le convulsioni, nulla avessero a che fare con il meccanismo terapeutico, ha fatto sì che esse fossero immediatamente eliminate, come inutili nella pratica terapeutica. Ciò si è ottenuto facilmente, praticando l’elettroshock in anestesia generale e con il paziente curarizzato, come durante qualsiasi intervento chirurgico; anestesia che dura solamente pochi minuti e dalla quale il paziente si risveglia, con null’altro fastidio, che a volte una leggera cefalea la quale scompare dopo poco.

Si evince da questo, che tutte quelle fantasie dell’immaginario collettivo e frutto d’ignoranza, circa l’elettroshock come pratica di tortura, sono assolutamente false e in mala fede e si propongono spesso scopi squallidamente demagogici che nulla hanno a che fare con la salute dei pazienti:

Fino all’avvento della psicofarmacologia, ossia approssimativamente agli anni ’60, l’elettroshock è stato l’unica terapia organica valida, di cui gli psichiatri disponessero per cercare di curare seriamente i propri pazienti.

L’introduzione in terapia degli psicofarmaci ha radicalmente mutato lo scenario della Psichiatria, sia sul piano pratico, di possibilità terapeutiche, di prognosi, di speranza di guarigione, o almeno di miglioramento, per i suoi pazienti, sia sul piano ideologico e di scelte sociali.

Non ho alcun timore di affermare che la “chiusura degli ospedali psichiatrici”, attuata sulla scia delle scelte innovative del prof. Franco Basaglia a Trieste, non sarebbe stata possibile, ma neppure immaginabile, senza gli psicofarmaci.

Nell’attuale era psicofarmacologica l’uso e la necessità di ricorrere all’elettroshock si è grandemente ridotto, ma esso presenta ancora una gran validità terapeutica in alcune indicazioni specifiche, quali la depressione endogena grave di tipo inibito e resistente ad altre terapie e tra le schizofrenie in fase florida, soprattutto la forma catatonica.

L’indicazione poi all’elettroshock è, a parer mio prioritaria, in quelle forme depressive endogene, particolarmente gravi, quando il rischio di suicidio è elevato e non si può attendere l’effetto terapeutico dei farmaci antidepressivi, che comunque hanno bisogno di un certo tempo per divenire efficaci.

In questo caso l’uso appropriato dell’elettroshock può salvare la vita del paziente, con buona pace del “nido del cuculo”.

Quali sono i rischi e i pericoli dell’elettroshock?

Nell’immediato molto pochi: quelli legati all’anestesia, come in qualsiasi intervento chirurgico e quelli legati ad eventuali malattie cardiache gravi preesistenti nel paziente.

Si parla molto di deterioramento psichico, indotto dall’elettroshock ed in merito a questo bisogna fare alcune considerazioni:

Prima di tutto l’elettroshock è stato e viene usato, per curare patologie psichiatriche estremamente gravi, ove un certo deterioramento viene prodotto, di per sé, dalla malattia stessa e quindi mi sembra al minimo azzardato, imprudente e poco scientifico, attribuirlo tout-court all’elettroshock, a meno che le ragioni dell’ideologia politica, non prevalgano su quelle della scienza;

Secondo, come ogni altra terapia, l’elettroshock deve essere bene utilizzato, secondo indicazioni e modalità ben precise. Un cattivo uso produce inevitabilmente danni, ma essi sono da attribuirsi alla mano che usa lo strumento e non allo strumento stesso, come un buon bisturi, nella mano di un chirurgo incompetente.

A tal proposito, voglio aggiungere, che un uso, non proprio terapeutico, dell’elettroshock è stato fatto, largamente e per lungo tempo, nei paesi ex socialisti, soprattutto in Unione Sovietica, nel periodo stalinista ed anche successivo, ove veniva praticata la tecnica cosiddetta dell’”annichilimento”, consistente in più applicazioni quotidiane d’elettroshock, per periodi lunghi, con il risultato di cancellare completamente la memoria e la volontà di resistenza dei dissidenti e ridurli allo stato d’automi consenzienti.

Forse era lì il vero nido del cuculo, ma lo abbiamo cercato altrove.

Domenico Mazzullo

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