“Vi hanno degli uomini che hanno troppo genio per
essere o parere grandi, e questi sono seppelliti o nelle
biblioteche o nei manicomi”
Cesare Lombroso,
Osservazioni sul mondo e l’Io, 1855
“La mia vera passione è di nuocere ai miei interessi.”
Cesare Lombroso,
L’Uomo di genio, 1888
“Ci ha qualcosa che mette ribrezzo su quella fronte bassa,in quegli occhi torbidi, che tiene quasi nascosti sotto la visiera del suo berrettino di tela cerata. Non teme nulla, ride in faccia al maestro, ruba quando può,nega con una faccia invetriata,, è sempre in lite con qualcheduno, si porta a scuola degli spilloni, per punzecchiare i vicini…”
Edmondo De Amicis
Cuore, 1886
“Brutto, deforme, destava un senso di ribrezzo al primo vederlo. Era basso di statura, capelli lunghi, cresputi, incolti, occhi torbidi, sanguigni, il naso schiacciato, i labbri sporgenti, le gote quasi interamente nascoste da peli ispidissimi e folti, l’accento breve e rauco…”
Carolina Invernizio
Il bacio d’una morta, 1889
Il nostro discorso sulla Fisiognomica, sulla sua storia e sulla sua evoluzione, sul suo sviluppo, sul suo trasformarsi da pura e semplice costatazione empirica, a vera e propria scienza, anche se tuttora e ancora non le è stato tributato il ruolo di scienza come le altre, ma è stata relegata al limbo delle pseudoscienze, non potrebbe concludersi, se non vi abbiamo ancora annoiato, senza dedicare uno spazio opportuno e dovuto a Cesare Lombroso, lo scienziato italiano del secolo scorso, psichiatra di fama mondiale e padre della attuale e moderna criminologia e della antropologia criminale.
Il suo nome è legato, indissolubilmente, alla sua opera maggiore e più conosciuta, quella a cui è dovuta la sua fama mondiale, ma anche quella che maggiormente è stata criticata e avversata, quella contro la quale si sono appuntati e diretti gli strali delle critiche, delle opposizioni, delle mistificazioni e ignoranti incomprensioni:”L’Uomo delinquente”.
La produzione scientifica però, di Cesare Lombroso, non si esaurisce certo con quest’opera che lo ha reso famoso, ma è ricca e copiosa ed esprime appieno, nella sua molteplicità e prolificità, l’animo geniale di quest’uomo che incarnò mirabilmente in vita, con le sue scelte coraggiose e personali, con la sua curiosità, con la sua capacità di mettersi da solo in discussione, con la sua attitudine all’osservazione e alla deduzione logica, con la sua eclettica cultura, con la sua solitudine esistenziale, tormentata e tormentosa, infine con un insopprimibile anelito di libertà di pensiero, lo spirito di un’epoca, di un tempo e periodo storico in cui si realizzò un meraviglioso e forse irripetibile, equilibrato connubio, tra progresso scientifico, legittima aspirazione dell’uomo, e un’attenzione e comprensione delle esigenze umane, che purtroppo ormai è solo memoria di un passato trascorso e forse non più ripetibile.
Gli interessi di Lombroso spaziarono, infatti, nella sua vita, dagli studi strettamente medici a temi ed argomenti ad essi lontani, quali ad esempio lo spiritismo ed i fenomeni che oggi sarebbero detti paranormali. Mirabili, tra i primi quelli sulla Pellagra, malattia ora quasi sconosciuta, ma che in quei tempi rappresentava una vera e propria piaga, sanitaria, ma anche sociale, interessando essa gli strati più poveri della popolazione, legata com’era, ma allora la causa, era sconosciuta, ad una carenza alimentare, nello specifico di una vitamina, la vitamina PP. Questa malattia che rappresentò per Lombroso un quesito, un lancinante interrogativo, un’angoscia che lo accompagnò per tutta la vita, non fu studiata, dal giovane studente e poi medico Lombroso, nel chiuso di un laboratorio o di una comoda aula universitaria, ma piuttosto “sul campo” come si dice ora, evocando eroismi clinici oggi risibili.
Ai tempi di Lombroso questo significava visitare le campagne, frequentare gli ambienti più poveri e derelitti di un’Italia contadina che stentava a nascere e la cui popolazione, per la maggior parte stentava a sopravvivere. Proprio questi studi e queste frequentazioni offrirono a Lombroso, medico attento, curioso e disponibile, l’opportunità di conoscere e comprendere, anche e soprattutto, gli aspetti sociali della malattia, cui fu sempre attento e sensibile, pur quando, più tardivamente, si occupò di patologia mentale, specificatamente in ambito criminale. E con questo voglio confutare la prima delle tante accuse che ingiustamente furono mosse a Lombroso, frutto di una miope ignoranza e non comprensione, o ancor peggio di pregiudizio derivante da mancata conoscenza delle sue opere e del suo pensiero, ossia la presunta sua disattenzione agli aspetti sociali della malattia e dei malati, lo fossero nel fisico o nella psiche. Nulla di più falso e più ingiusto nei suoi confronti. Lombroso, infatti, figlio di un secolo, di un momento culturale e di una società che vedeva nella scienza, nei progressi da essa forniti, nella ricerca, spesso spasmodica ed esasperata di riscontri obbiettivi ed obbiettivabili, una nuova religione laica e agnostica, una fonte di certezze terrene e materiali, da contrapporre alle certezze fideistiche e non comprovabili della religione tradizionale, un secolo che dette i natali a Charles Darwin e a Karl Marx, un secolo che dopo i fulgori ed i palpiti romantici, si chiudeva con un freddo e razionale positivismo, Lombroso, dicevo, incarnò in sé la figura dello scienziato ottocentesco positivista e razionalista, ma anche dell’uomo romantico, attento e sensibile alle esigenze delle classi meno abbienti, più povere e derelitte, emarginate e misconosciute, tanto da non aver mai occultato, o nascosto la propria fede socialista, che non pochi problemi gli procurò, specialmente in ambito accademico.
Ma torniamo a “L’uomo delinquente”, l’opera che rese Lombroso celebre in tutto il mondo, che fu tradotta in tutte le lingue, compreso il giapponese, che tributò al suo autore una fama e una notorietà, all’estero, mai cercata, ma che sempre gli era stata negata nel suo paese, da una miope e retriva invidia e ostilità dei suoi colleghi, fama che però fu di breve durata e si trasformò dopo la sua morte, in un coro unanime e crudele di critiche, di invettive, di misconoscimenti della sua opera e del suo pensiero, di travisamenti, a mio vedere dolosi, per dimostrare una tesi negativa e sfavorevole, che però tuttora continua ad essere legata al suo nome.
Quando, infatti, ancora oggi si pensa a Lombroso, ricorre alla mente l’immagine macchiettistica ed irriverente di uno pseudoscienziato, di uno psichiatra, ben corrispondente alla iconografia allusiva che vuole questi, anch’egli affetto dalla stessa malattia che pretende di curare negli altri, armato nel caso specifico di compasso, centimetro e squadra e intento a misurare crani, orecchie, nasi, bocche e altri organi vari di delinquenti e criminali, per scoprire in esse misurazioni, per riscontrare in essi dati matematici inconfutabili, i segni inequivocabili, le prove inappellabili della loro criminalità e della loro congenita tendenza ed inclinazione a delinquere, con un meccanicismo ed un determinismo impressionante, quasi che l’aspetto fisico, anatomico fosse un destino inappellabile cui non ci si potesse in alcun modo sottrarre, un destino di delinquere, naturalmente.
Ne scaturisce da questa falsa e pretestuosa interpretazione l’immagine di Lombroso come antesignano inconsapevole delle teorie di miglioramento e difesa della razza, con inevitabile eliminazione dei peggiori, che videro la loro migliore e più estesa espressione nel nazismo, di lì a pochi anni. Ma Cesare Lombroso, per sua fortuna era già morto nel 1909, senza conoscere ciò che sarebbe accaduto di lì a poco e cosa si sarebbe detto e pensato di lui.
Per chi abbia, come me, la fortuna di poter leggere “L’uomo delinquente” integralmente, nella sua ultima edizione, la più estesa e completa, del 1897, ora introvabile, ma che verrà presto ristampata ad opera meritoria di un coraggioso editore ed a mia cura, è evidente che la fatica dell’autore non si riassume e non si compendia in un pedissequo elenco di caratteristiche fisiognomiche di personaggi delinquenti e nel conseguente fallace e fallito tentativo di risalire, attraverso queste, ad un paradigma fisico della tendenza a delinquere, come una facile e superficiale critica vorrebbe far credere, ma la vera novità e grandezza di Lombroso è rappresentata e consiste nell’aver spostato il polo di interesse e di attenzione, dal crimine, fino a quel momento elemento centrale di ogni studio in materia, al criminale invece, indagando di questi le origini sociali e personali, culturali, la famiglia di provenienza, l’ambiente nel quale è cresciuto e si è formato, gli aspetti più reconditi del carattere e dello sviluppo della personalità, le modalità con le quali il crimine è stato commesso, le sue peculiarità, rappresentanti quasi la firma del criminale stesso, le reazioni del criminale dopo aver commesso il crimine e la vita carceraria dopo l’arresto.
Da quanto detto si può evincere e mi sembra che a tutto diritto spetti a Cesare Lombroso l’indubbio merito di aver gettato le basi e aver fondato la moderna criminologia e la vicina antropologia criminale, merito che i coevi stentarono molto a riconoscergli e i posteri non gli riconoscono, offuscati come sono dal pregiudizio figlio di ignoranza.
La teoria di Lombroso, non nasce come frutto di un pensiero solitario, o dell’intuizione peregrina del medico nel chiuso isolamento del proprio studio, come è invece avvenuto per un suo coevo viennese che ebbe ed ha tuttora, immeritatamente a mio parere, migliore e più grande fama, ma ed oppositamente dalla acuta, giornaliera, faticosa e pericolosa osservazione, per anni ed anni, di criminali rinchiusi nelle carceri e nei manicomi criminali.
Attraverso queste osservazioni Lombroso arrivò a distinguere diversi tipi di criminali: il “delinquente nato” per il quale la criminalità è insita nella propria natura e che è considerato soggetto non recuperabile, da rinchiudere, in nome del diritto della difesa della società, che in questi casi si sostituisce al diritto di punizione, il “criminale epilettico”, il “delinquente per impeto passionale” (forza irresistibile), il “delinquente pazzo” (criminale pazzo e debole di mente) e il “delinquente occasionale” portato al delitto da fattori causali diversi da quelli del delinquente nato.
Su questi ultimi, ben diversi dal delinquente nato, deve essere svolta un’opera di rieducazione in istituti carcerari ben organizzati.
E’ evidente che la grande evoluzione e rivoluzione del pensiero lombrosiano è rappresentata dal riconoscimento e teorizzazione della prima categoria di delinquenti, il “delinquente nato”, nei quali egli riconosce una tendenza intrinseca a delinquere, ben diversa e distinguibile dal delinquere occasionale o per altre, specifiche motivazioni.
Da questa ipotetica esistenza del delinquente nato, scaturiscono due importanti corollari, ben riconosciuti e descritti dall’autore: la grande pericolosità sociale di questa categoria che delinque quasi, o soprattutto per il gusto di delinquere, per la quale il crimine è fine a se stesso e spesso compiuto rispondendo ad un impulso irresistibile; la ridotta imputabilità per questi criminali i quali sarebbero meno liberi di scegliere, ma sarebbero invece più condizionati degli altri dalla loro natura, in questo caso deviata.
Lombroso indicò anche ed ebbe ben chiare le conseguenze giuridiche della propria dottrina: poiché il crimine non è il frutto di una libera scelta, ma piuttosto la manifestazione di una anomalia della personalità, allora la pena deve essere intesa, non come punizione (non ha senso punire chi non ha agito liberamente), ma semplicemente come strumento di tutela della società.
Ma in cosa consiste, in cosa si ravvisa questa tendenza innata a delinquere?
Lombroso, precorrendo addirittura le idee di Darwin, e successivamente in totale consonanza con la di lui teoria dell’evoluzione, formulò, nell’ambito di sua competenza, la teoria dell’atavismo, per cui certi comportamenti che oggi chiamiamo criminali e suscitano orrore e riprovazione nell’uomo evoluto rappresentavano e rappresentano comportamenti assolutamente normali nei primitivi e che poi sono stati via via abbandonati con il lento, progressivo progredire della civiltà e il sorgere di un’etica individuale e sociale.
Si deve sempre a Lombroso l’assioma secondo cui l’ontogenesi, ossia lo sviluppo embrionale dell’uomo, ripercorre la filogenesi, ossia l’origine e lo sviluppo delle specie secondo Darwin.
Secondo questa teoria il delinquente nato, a questo punto possiamo dire “atavico” rappresenterebbe un individuo nel quale lo sviluppo individuale si sarebbe arrestato a fasi inferiori e più primitive di evoluzione, di cui il comportamento criminale sarebbe l’espressione precipua.
Qualcosa di esattamente opposto a quanto sostenuto dall’ingenuo e ottimista J.J. Rousseau che nella sua “teoria del buon selvaggio” asserì, non conosco con quali prove, che solo il progresso e l’evoluzione potevano corrompere veramente l’innocenza primitiva dell’uomo.
La vita di Cesare Lombroso fu spesa e consumata, in gran parte, nella raccolta di materiale anatomico, autoptico, fotografico, descrittivo teso a comprovare con dati empirici la veridicità della sua teoria, alla ricerca di quelle stimmate fisiche, di quelle caratteristiche peculiari che denotassero e dichiarassero inconfutabilmente questo atavismo, questa primitività, questa tendenza a delinquere, frutto non di intenzionalità moralmente perversa, ma di un impulso e una tendenza irresistibile.
E proprio ahimé quest’ultimo aspetto della vita e della produzione scientifica di Lombroso ha maggiormente richiamato l’attenzione dei contemporanei e soprattutto dei posteri, che prescindendo e sorvolando sulla validità intrinseca delle sue teorie, hanno appuntato le loro critiche sui mezzi e sulle modalità adottate dallo studioso per dimostrarle, dimenticando e tralasciando di considerare che Lombroso è un medico e scienziato di fine ‘800, fedele ad un procedere e ad una metodologia positivista e scientifica, che da Cartesio in poi e tuttora rappresenta il metodo adoperato da chi si occupa di scienza ed è come tale alieno dai voli pindarici di altre discipline, forse più affascinanti, ma non per questo più attendibili.
Ma forse, e azzardo una ipotesi, l’avversione e lo sdegno che le teorie di Lombroso suscitarono presso i contemporanei, ma soprattutto i posteri ha un’altra e più subdola ragione: il determinismo da lui sostenuto, il geneticamente determinato si direbbe oggi con termini più moderni, il condizionato irrimediabilmente dalla nostra intrinseca natura, mal si accorda, in tutte le epoche, con quella idea di libertà assoluta, che l’essere umano orgogliosamente ha e nutre di sé.
L’idea solo sfiorata che il comportamento umano (criminale, ma non solo) possa essere non così assolutamente e totalmente libero, ma piuttosto condizionato e determinato dalla nostra stessa natura, fa inorridire chi vuol sentirsi orgogliosamente libero.
E che fine farebbero le categorie di “bene e di “male”, così ben definite e codificate? Che fine farebbe il “libero arbitrio” così caro alla cultura e tradizione cristiana? Ma Cesare Lombroso, pochi lo sanno, era ebreo.
Ecco spiegata forse la maggiore, universale, incomprensibile fortuna che arrise e arride tuttora a Sigmund Freud, il quale, senza alcuna prova scientifica, senza alcun riscontro empirico, costruì ed inventò di sana pianta, nel chiuso del suo studio viennese, con l’osservazione di un numero scarsissimo di pazienti, risibile a confronto di quelli osservati da Lombroso, una teoria assolutamente fantastica e fantasiosa, nemmeno originale, saccheggiando come fece, a piene mani la mitologia ed il pensiero classico, impossibile da comprovare….ma certamente più gradita e gradevole, appetibile, facilmente comprensibile, adattabile a tutte le situazioni e a tutti i casi, come d’altronde fece per primo lo stesso Freud, che utilizzò la sua casistica, forzandola, per comprovare, a posteriori la sua stessa teoria.
Lombroso ebbe la sfortuna, io penso così, di dire cose vere ma sgradevoli, Freud invece la fortuna di dire cose non vere, ma certo più gradevoli e si sa bene che l’umanità tra il linguaggio fantastico della poesia e quello scientifico della prosa, preferisce certamente il primo.
Si chiude così il nostro discorso storico sulla fisiognomica, una “pseudoscienza” che aspira ad essere ed essere considerata una scienza vera.
Come le volte precedenti mi permetto di fornire un esempio pratico del modo di procedere della fisiognomica scegliendo un personaggio conosciuto.
Confesso che il personaggio prescelto, da sottoporre inconsapevolmente all’analisi sarebbe stato un altro, ma la pubblicazione sulla copertina, nello scorso numero della rivista, dell’immagine di Benedetto XVI non mi ha permesso di sottrarmi alla velleità di cimentarmi con la sua figura. I lettori rigidamente religiosi mi scuseranno.
Il volto di Papa Ratzinger rimanda l’immagine di un’intelligenza acuta e sottile, di una capacità intellettuale non indifferente, di una volontà ferrea e tenace, disposta anche a sacrifici estremi pur di perseguire i propri scopi e raggiungere i propri obbiettivi. Si tratta di un’intelligenza lungimirante e dai lontani orizzonti, più strategica che tattica e per rimanere in ambito militare, da generale di Stato maggiore che guarda la battaglia dall’alto, comandando gli spostamenti delle proprie truppe, piuttosto che da generale che in sella al suo cavallo guida la carica alla testa dei suoi uomini.
Papa Ratzinger è, infatti, un uomo freddo, certo non passionale, o meglio abituato a contenere e frenare le sue passioni, in ogni modo modeste e non certo sanguigne, come quelle di alcuni suoi predecessori. E’ un uomo da scrivania piuttosto che da pulpito, studiato, misurato, ragionatore, estremamente logico e coerente. Sicuramente un perfezionista con altissime richieste di prestazioni, verso se stesso e verso gli altri, con i quali è certamente parco di elogi, ma non di rampogne e sottili stilettate che lasciano un segno duraturo e doloroso.
Rigido, intransigente, poco incline all’autocritica e ad accettare consigli e suggerimenti. Orgoglioso oltre misura e chiuso in un freddo isolamento intellettuale, impenetrabile e impermeabile. Permaloso, non sopporta le critiche ed i pareri contrari che considera come offese personali. Solitario e misantropo, non è a suo agio, quando riceve manifestazioni d’affetto che non comprende e non riesce a ricambiare.
Dotato di una memoria prodigiosa, di notevole capacità organizzativa e altrettanto notevole attitudine al comando è rispettato dai suoi sottoposti, ma non amato, incapace com’è di suscitare emozioni e passioni.
Forse nel suo intimo è invidioso e geloso delle simpatie e delle passioni suscitate dal suo predecessore.
Molto attento ai particolari anche nelle piccole cose, attentissimo alla forma, oltre che naturalmente alla sostanza, cultore dell’immagine fornita, che deve essere perfetta e inattaccabile. In alcuni aspetti anche vanitoso, soprattutto per quanto riguarda l’abbigliamento, famoso ormai il particolare delle scarpe rosse di pelle firmate Prada, che spuntano e risaltano sotto le candide vesti forse leggermente troppo corte e la ripristinata berretta invernale bordata d’ermellino.
Per natura conservatore e timoroso delle novità che guarda con diffidenza, ma che non disdegna di conoscere. Aristocratico si sforza, senza riuscirci, di apparire democratico e popolare, ma il forte accento germanico certo non lo aiuta.
Voglio precisare, da laico e agnostico, che quanto detto sopra si riferisce a Papa Ratzinger in quanto persona umana, senza per nulla entrare in merito alla sua figura religiosa. Spero che i credenti non me ne vogliano.
Domenico Mazzullo