
Con straordinaria, puntuale, precisa e inquietante simultaneità, da qualche settimana è apparsa su tutta la stampa, quotidiana e periodica, una campagna di critica e denigrazione nei confronti degli psicofarmaci in generale e in modo particolare nei confronti degli antidepressivi, con speciale riferimento al Prozac, capostipite di una nuova generazione di antidepressivi divenuti di uso e consumo diffuso in tutti i paesi dalla seconda metà degli anni ’80, gli SSRI, inibitori selettivi della ricaptazione della Serotonina, che hanno rappresentato, a partire da quegli anni, una nuova frontiera, o meglio un nuovo fronte, nella lotta che in tutto il mondo si combatte contro la depressione, una malattia temibile ed estremamente diffusa, vorrei dire sempre più diffusa, sia perché è meglio conosciuta e quindi più riconosciuta e diagnosticata, sia perché è effettivamente ed ineludibilmente in aumento, interessando fasce sempre più ampie della popolazione, con una straordinaria prevalenza in età, quelle adolescenziali e giovanili, che prima erroneamente erano considerate indenni da questa patologia.
I titoli degli articoli sono inquietanti e più o meno sono tutti dello stesso tono scandalistico e perentorio: “il Prozac e gli altri farmaci antidepressivi non servono a nulla e la loro efficacia non andrebbe oltre un semplice effetto placebo. Per guarire dalla depressione non c’è bisogno di ricorrere a trattamenti chimici”.
Questa è la conclusione cui sarebbero giunti i ricercatori di una Università anglosassone, quella di Hull, guarda caso, proprio nel dipartimento di Psicologia di questa Università, ripresa e riprodotta su riviste scientifiche e che avrebbe dato luogo alla campagna critica e denigratoria di cui sopra.
Con tutto il rispetto per i ricercatori e per le conclusioni delle loro ricerche, che in ogni caso non condivido assolutamente e che contrastano fortemente con decenni di studi e di evidenze cliniche, dimostranti esattamente il contrario, ossia la grande, risolutiva, insostituibile efficacia dei farmaci antidepressivi nel trattamento della depressione, credo che chi compie certe ricerche e giunge a tali “rivoluzionarie” conclusioni, dovrebbe richiamarsi al principio fondamentale di ogni medico, primum non nocere, ossia in primo luogo non nuocere e nel rispetto di una elementare norma di deontologia medica dovrebbe essere cauto nel pubblicare e consegnare alla stampa affermazioni di questo tipo.
Credo che chi ricerca in questo campo, dovrebbe esercitare una elementare quanto semplice prudenza e autocritica, valutando le conseguenze di tali affermazioni, che lungi dall’essere confermate e condivise, possono creare nei pazienti una legittima incertezza, un pericoloso sconcerto ed una dannosa sfiducia nei confronti dei medici e nei farmaci da questi utilizzati.
In questo caso, come purtroppo in altri, sempre più frequenti e diffusi, mi sembra piuttosto, che il desiderio di fare notizia, di creare sconcerto e di rispondere forse ad esigenze di protagonismo, o, ma non vorrei crederci, di benefici economici, abbia il sopravvento e sia privilegiato, sul fondamentale interesse per i pazienti, che andrebbero invece tutelati e curati nel loro interesse fondamentale, la salute.
Nel mio piccolo di psichiatra clinico, già da subito, ho potuto toccare con mano, lo sconcerto provocato dalla notizia pubblicata dai giornali, alla luce del subisso di telefonate che ho ricevuto, dai miei pazienti in cura presso di me con antidepressivi, allarmati e preoccupati, per quanto hanno letto sulla stampa, a proposito della presunta ed affermata inefficacia ed inutilità degli antidepressivi.
Come psichiatra posso affermare e credo che tutti i colleghi possano concordare, che il destino dei pazienti depressi è radicalmente, drammaticamente mutato in senso positivo, da quando sono stati utilizzati i farmaci antidepressivi.
Moltissime vite sono state salvate e le inaudite, insopportabili sofferenze provocate dalla depressione sono state curate, abolite e soppresse da questi farmaci antidepressivi di cui, oggi, si vorrebbe negare l’efficacia.
Credo che chi parla così, chi si avventura in queste ardite, quanto fallaci osservazioni, non abbia mai visto la vera depressione sconvolgere le vite di chi ne è affetto, o peggio, non abbia mai provato su di sè, nemmeno per pochi minuti, i morsi della depressione, non abbia mai visto tornare il sorriso sui volti contratti dal dolore dei suoi pazienti, o non abbia mai vissuto entro di sè l’esperienza di essere liberato dall’angoscia attanagliante, grazie alla efficacia dei farmaci antidepressivi, appunto.
I milioni di pazienti sofferenti in tutto il mondo, curati e guariti dalla depressione per mezzo dei farmaci, possono testimoniare, molto meglio di uno studio statistico dell’Istituto di Psicologia della Università di Hull, l’efficacia dei farmaci antidepressivi.
Il Prozac, uno degli antidepressivi chiamati in causa, è divenuto famoso in tutto il mondo come la “Pillola della felicità”.
Ho sempre violentemente stigmatizzato questa denominazione e questa assurda pubblicità per un antidepressivo, non certo l’unico e non certo il primo, ma uno dei tanti.
La felicità, a mio parere, non esiste e non può certo essere conseguita attraverso una pillola, ma se chiamiamo “felicità” il guarire dalla depressione, allora il termine di “pillola della felicità” spetta di diritto non solo al Prozac, ma a tutti gli antidepressivi che ci sono e che ci saranno, preziosi, indispensabili ausili, per guarire dalla depressione, a dispetto di tutti i pareri contrari.
Si è voluto ridurre l’azione degli antidepressivi ad un “effetto placebo”.
Come psichiatra che cura la depressione con gli antidepressivi, ma è anch’egli sofferente di depressione e si cura con gli stessi antidepressivi, posso affermare con certezza la loro efficacia, la loro affidabilità e la loro insostituibilità nella terapia di questa dolorosissima patologia.
Se anche un solo paziente depresso, che potrebbe giovarsi di questi farmaci, dovesse essere distolto dall’ utilizzare questa terapia, suggestionato dalle conclusioni di tali ricerche, così proditoriamente ed imprudentemente pubblicate, gli autori di queste dovranno sentirsi direttamente responsabili.
Ma come è mai possibile, si chiederanno naturalmente i lettori di questo articolo, che in un campo che dovrebbe essere scientifico e quindi detentore di una verità universalmente riconosciuta, quale appunto è quello della Medicina, i pareri e le convinzioni possano essere così dissimili da far pensare che ci si muova nell’ambito della Fede, piuttosto che in quello della Scienza?
Prima di tutto dobbiamo considerare che la Medicina è sì una disciplina scientifica, ma di una Scienza applicata e quando la Scienza lascia l’ambito della teoria e scende nella pratica, allora le stesse verità non sono più assolute, ma divengono opinabili e discutibili, soggette ad umane interpretazioni.
Nell’ambito poi della Medicina che ha raggiunto traguardi di grande scientificità, la Psichiatria è la branca, se così si può dire, meno scientifica di tutte, avendo come campo di ricerca e di applicazione la Psiche, che ancora, da parte di molti, si fa fatica ad accettare, sia il prodotto, l’espressione della nostra attività cerebrale.
Ancora facciamo fatica a rinunciare al dualismo cartesiano, alla suddivisione da Cartesio introdotta, in res cogitans e res extensa, psiche e corpo, quasi che fossero due entità nette e distinte, due esistenze separate e contenute l’una nell’altra, con una psiche ,assimilabile per analogia, all’anima dei credenti, racchiusa in un corpo mortale.
Anche noi psichiatri, paradossalmente siamo corresponsabili di questo equivoco, significando, il termine “psichiatra” etimologicamente “medico della psiche” e continuando ad adoperare impropriamente, per esempio, il termine equivoco di “malattie psicosomatiche”, ossia malattie di origine psichica, ma che si evidenziano e si esprimono, a livello corporeo.
E’ evidente quindi che in un campo della Medicina, così poco ancora definito e così ancora “fluido”, ahimé, ricco ancora del proliferare di teorie spesso tutt’altro che scientifiche, vi sia largo spazio per interpretazioni e letture diverse, della stessa realtà psichica, che proprio per la sua stessa natura e complessità sfugge e si rifiuta di essere racchiusa e conchiusa in una definizione, o una diagnosi univoca.
E proprio il problema della diagnosi, fondamento di ogni pratica medica, è il punto più dolente e più controverso della psichiatria, non potendo essa contare, a differenza delle altre specialità mediche, su esami strumentali, o di laboratorio che indirizzino, che corroborino, che sostengano, e suffraghino, o smentiscano, diagnosi che invece devono svolgersi ed esaurirsi solamente sul piano clinico, su ciò che il medico osservatore vede, o gli è espresso, denunciato e raccontato dallo stesso paziente, con tutta quindi la soggettività di chi osserva e deve decidere solo ed esclusivamente in base a questo.
Va da sé quindi che ancora più complesso e aleatorio si fa il quadro, quando si tratta di fare ricerca statistica, ad esempio sui miglioramenti prodotti da un farmaco utilizzato in un certo numero di pazienti campione, dovendo tradurre, semplifico al massimo, in numeri esatti, concetti poco quantificabili quali quelli di un miglioramento clinico nella sintomatologia della depressione.
Come posso quantificare in termini numerici, il miglioramento soggettivo che un paziente depresso prova con l’uso di un farmaco? Come posso confrontare questo miglioramento con quello di altri pazienti analoghi, che assumono lo stesso farmaco, per ottenere una comparazione statistica? Questo solo per citare alcuni degli innumerevoli problemi che tale metodica comporta.
Non deve stupirci quindi il fatto, per noi psichiatri ben noto, purtroppo, che molteplici ricerche, sullo stesso tema, possano portare a risultati diametralmente opposti, illudendoci infantilmente, con queste valutazioni statistiche, di possedere delle certezze e sicurezze scientifiche, che invece certezze e sicurezze proprio non sono e meno che meno scientifiche.
E questo è ancor più serio e più grave, in un tempo in cui la cultura medica e quella psichiatrica in particolare, si stanno spostando sempre di più verso una dimensione ed una valutazione statistica delle patologie, rinunciando purtroppo ad un ragionamento clinico, unica base e sostegno, a mio parere, di ogni sapere medico.
Non mi stupisce per nulla quindi che una ricerca statistica sull’efficacia dei farmaci antidepressivi, confrontati con un placebo, può aver dato risultati diametralmente opposti a quelli di tante altre ricerche analoghe, ma soprattutto con quella che è un’irrinunciabile e non trascurabile esperienza clinica d’ogni medico e dei pazienti, tantissimi, che hanno usufruito e si sono giovati di questi farmaci antidepressivi.
E proprio questa ultima considerazione si oppone alla critica che da tante parti viene sollevata, sulla inattendibilità di queste ricerche, in quanto sponsorizzate dalle case farmaceutiche tese, per evidenti cause economiche a propagandare gli effetti positivi dei farmaci. Se questo è plausibilmente vero, infatti, è pur vero che qualsiasi farmaco, prima di essere autorizzato e introdotto in commercio è sottoposto ad un numero enorme di neutrali valutazioni sulla sua efficacia, tollerabilità, innocuità, affidabilità e possibili, o probabili effetti collaterali e inoltre non dimentichiamo che il riscontro clinico che ogni medico personalmente attua sui farmaci da lui utilizzati, difficilmente può essere influenzato dalla propaganda farmaceutica. E bisogna anche dar atto alle case farmaceutiche che la costosa e impegnativa ricerca da esse condotte sui farmaci, ha permesso a noi medici di poter godere di sempre nuovi e più efficaci farmaci, per contrastare e combattere le malattie.
Non comprendo poi ancora, perché la stessa critica non sia rivolta alle case farmaceutiche che producono e mettono in vendita, non certo con prezzi inferiori, i cosiddetti “farmaci omeopatici” o “fitofarmaci” o “prodotti di erboristeria”, rimedi tutti appartenenti alla, sempre cosiddetta, “medicina alternativa”, così di moda in questi tempi e di cui non è stata dimostrata scientificamente ancora nessuna validità ed efficacia, con buona pace dei loro entusiasti sostenitori.
Ma un’altra considerazione è forse ancora più importante a questo proposito: da questa ricerca in discussione si evincerebbe che sarebbero le depressioni gravi, quelle maggiormente sensibili alla efficacia degli antidepressivi, mentre quelle lievi sarebbero invece meno sensibili alla efficacia degli stessi, paragonabile a quella di un placebo.
Sorge a questo punto quindi il problema della diagnosi e nello specifico della diagnosi di depressione, appunto, che se è facile e difficilmente equivocabile per le forme più gravi della patologia, risulta invece, paradossalmente, ma non inspiegabilmente, più complessa e più ambigua per le forme più lievi, non sempre facilmente distinguibili, come “depressione” e quindi patologia, dalla normale “tristezza”, che, seppur dolorosa e sofferta, rientra nei sentimenti normali dell’essere umano.
Mentre infatti vi può essere un errore per difetto, nel sottostimare l’incidenza della depressione, non riconoscendola come fenomeno patologico, altrettanto vi può essere una sovrastima di questa, considerando come forme lievi di depressione e quindi patologiche e da curarsi, quelle che sono malinconie e tormenti dell’animo, che seppur gravemente dolorosi, non costituiscono una patologia e non sono quindi da curarsi.
Non esiste purtroppo, come dicevo prima, un limite netto e facilmente riscontrabile, se non con grande esperienza ed empatia nei confronti del paziente e si rischia, cadendo in errore, di non curare, ritenendoli fisiologicamente malinconici e tristi, pazienti che invece sono depressi, ma anche di curare pazienti fisiologicamente tristi, ma non depressi.
Ovviamente ritengo il primo errore molto più grave e pericoloso del secondo, anche perché le persone fisiologicamente tristi, ma non depresse, non risultano sensibili ai farmaci antidepressivi e non migliorano con questi, come invece avviene visibilmente ed indubbiamente, invece, con i pazienti veramente affetti da depressione.
Ecco quindi spiegato, a mio parere, il risultato della ricerca in discussione.
Se tra i pazienti affetti da depressione cosiddetta lieve, vi erano invece persone non depresse, ma fisiologicamente tristi, queste, erroneamente diagnosticate come depresse, risultavano, naturalmente, insensibili ai farmaci.
Volendo lanciarmi in un paradosso, si potrebbe ipoteticamente affermare che quando vi è un dubbio diagnostico riguardo ad un paziente, nel quale sospettiamo una depressione lieve, ma non riusciamo ad escludere una fisiologica tristezza, invece, la somministrazione di farmaci antidepressivi, come criterio ex adiuvantibus, scioglierebbe il dubbio. Il miglioramento del paziente a seguito della somministrazione di farmaci deporrebbe per la depressione patologica, la insensibilità ai farmaci e quindi il mancato miglioramento, deporrebbe per una fisiologica tristezza.
Ma per fortuna, nella maggior parte dei casi, non è necessario ricorrere a questi criteri, perché il colloquio sereno con il paziente, la osservazione, ma soprattutto l’empatia che proviamo per lui, l’esperienza clinica, sono sufficienti a permetterci una diagnosi con rassicurante certezza.
A questo proposito e non vuole essere assolutamente un discorso Cicero pro domo sua, è perentoriamente indispensabile che la diagnosi di depressione, con conseguente prescrizione di farmaci venga fatta solo ed esclusivamente dallo specialista psichiatra, unico a possedere la competenza necessaria per formulare questa diagnosi, apparentemente facile, ma in realtà difficile e irta di trabocchetti e la competenza, nonché l’esperienza clinica per prescrivere farmaci antidepressivi, certamente efficaci, ma che non sono tutti equivalenti e sovrapponibili tra loro, avendo ognuno di questi caratteristiche specifiche che li rendono più o meno adatti per ogni singolo paziente.
Spero che i “medici di base”, una volta “generici”, non me ne vogliano. A loro, in quanto primi interlocutori del paziente, spetta il compito di sospettare una patologia depressiva, inviando il paziente allo specialista, ma non di iniziare, o intraprendere autonomamente una terapia, che potrebbe risultare errata, non appropriata e quindi deludente nei risultati.
E con questo, consapevole di uscire leggermente dal tema e di entrare a gamba tesa in una polemica che è sempre aperta, ma nell’esclusivo interesse dei pazienti, ritengo e affermo che a mio parere qualunque forma di terapia e quindi anche non farmacologica, ossia nello specifico una psicoterapia condotta da uno psicologo, debba essere subordinata e successiva ad una precisa diagnosi e ad una indicazione specifica compiuta da uno psichiatra. Si eviterebbero così psicoterapie inutili, a volte dannose, ma soprattutto si avrebbe la certezza di diagnosi precoci in pazienti che solo successivamente si manifesteranno esplicitamente come psicotici, dopo una lunga psicoterapia richiesta e praticata per disturbi iniziali della malattia, erroneamente non diagnosticati e scambiati come solamente nevrotici
Di depressione si è parlato poco in passato. Si parla forse troppo oggi e forse a sproposito.
Con la superficialità, la approssimazione e spesso la genericità di cui certi giornalisti sono capaci, in qualunque fatto di cronaca di crimini, spesso sviluppatisi nell’ambito della famiglia e caratterizzati da omicidi e a volte anche suicidi, viene invocata la depressione come patologia di cui l’omicida era da tempo sofferente e per questo in cura con psicofarmaci, lasciando quindi facilmente intendere o sospettare essere la depressione responsabile dell’omicidio, assieme ai farmaci adoperati per curarla.
Vorrei precisare che il paziente depresso casomai si uccide, ma rarissimamente uccide gli altri e per quanto riguarda gli antidepressivi, erroneamente ritenuti, da alcuni, capaci di indurre al suicidio, come equivocamente ed erroneamente si trova scritto nel foglio illustrativo (bugiardino) di alcuni di essi, è necessaria una volta per tutte una spiegazione.
La depressione è una gran brutta malattia che spinge chi ne soffre a desiderare la morte per essere liberato dalla sofferenza che essa provoca.
I pazienti depressi molto gravi, quelli maggiormente a rischio di suicidio, spesso sono talmente inibiti ed immobilizzati dalla stessa depressione che pur desiderandolo, non sono materialmente in grado di mettere in atto i propri propositi suicidari. Quando si inizia una terapia farmacologica atta a guarirli dalla depressione, i primi giorni di terapia sono quelli più pericolosi e questa è cosa che noi psichiatri conosciamo molto bene, in quanto i primi effetti della terapia sono rappresentati da una riduzione della inibizione e del conseguente immobilismo del paziente, che però continua e continuerà ancora per un poco ad essere depresso e quindi con una intenzionalità suicidaria, fino a che anche la depressione non sarà migliorata.
In questo lasso di tempo, seppur breve, il pericolo di suicidio è paradossalmente aumentato, in quanto il paziente meno inibito, ma purtuttavia ancora depresso, è in grado di attuare ciò che prima non era stato in grado di fare.
In questo breve intervallo, necessario perché i farmaci riducano la depressione, il rischio di suicidio è aumentato e la sorveglianza deve essere continua, fino a che il miglioramento delle condizioni cliniche non scongiuri definitivamente il pericolo. Tutto questo è quanto viene espresso molto male nel bugiardino, quando si dice che questi farmaci inducono al suicidio.
Mi piace concludere questo articolo con una frase di Philippe Pinel (1745-1826) il grande psichiatra illuminista, fondatore della Psichiatria francese e Direttore dal 1792 del manicomio di Parigi:
“Occorre stare in guardia e non mischiare discussioni metafisiche, o alcune disquisizioni degli ideologi, con la scienza che consiste di fatti attentamente osservati”.
I pazienti, riconoscenti, ringraziano.
Domenico Mazzullo