Sul cappello, sul cappello che noi portiamo
C’è una lunga, c’è una lunga penna nera…
Queste sono le parole con cui si apre una delle più celebri e amate canzoni degli Alpini, note in tutto il mondo. Con queste stesse parole si apre questo articolo, meglio detto racconto, che vede come protagonista proprio un cappello, un cappello da Alpino, con una lunga, lunga penna nera…
Se fossero stati ancora in vita, questo racconto sarebbe stato certamente scritto da Loro, da Salvator Gotta, celebre autore de “Il piccolo Alpino”, o da Edmondo De Amicis, autore del non più così celebre e letto “Libro Cuore”, ma purtroppo non sono più tra noi e allora io chiedo umilmente Loro in prestito la penna, la intingo nell’inchiostro e con mano tremante, questa storia la scrivo io, chiedendo fin d’ora umilmente scusa per la mia inadeguatezza, per la mia incompetenza a scrivere e descrivere quanto è avvenuto e quanto ho provato sulla mia persona.
Io non sono un Alpino, non ho servito negli Alpini, durante il Servizio Militare, ma ho avuto l’onore e il piacere di conoscere gli Alpini, di essere con Loro, in Loro compagnia e al Loro fianco, di averne provato e toccato con mano, il sentimento di abnegazione, l’umiltà, l’attaccamento al dovere, lo spirito di corpo, la grande umanità, in ultimo l’orgoglio e la gioia di appartenere al Corpo degli Alpini.
Alpini non lo si è per un periodo limitato della propria vita, solo quando si indossa la divisa, smessa la quale si torna ad essere persone normali.
Alpini lo si è per sempre, per tutta la vita, e anche dopo di questa, quando questa è finita, quando non facciamo più parte dei viventi, perché gli Alpini, a differenza dei comuni mortali, non muoiono mai….ma “vanno avanti”, ad indicarci la strada, ad illuminarci la strada, a precederci per proteggerci, ancora una volta, per prenderci per mano quando toccherà a noi, accompagnandoci in questo ultimo, periglioso viaggio verso l’ignoto.
La storia come tutte le storie che si rispettano, comincia da lontano, lontano nel tempo, circa tre anni fa, quando, con mia moglie a Venezia, in una breve pausa estiva, dopo aver visitato il Ghetto della città, con le sue meraviglie, decidemmo di sostare in un bar, approfittando di un suo tavolo all’aperto per gustare un gelato. Terminato questo e recatomi alla cassa del bar stesso, per compiere il mio dovere, verso una gentile Signora, che successivamente si rivelò come la proprietaria, mi sentii rifiutare il denaro con delle semplici, decise, determinate parole, che non ammettevano repliche o opposizioni di sorta:”No, Signore. Lei non paga. L’ho sempre vista per due anni, tutti i pomeriggi in televisione. Mi piace come parla. Sono sempre stata d’accordo con i suoi pareri. Il gelato lo offro io”.
Non ebbi il coraggio di ribattere nulla di fronte a tale decisa e ferma determinazione. Lusingato e ammirato, chiamai mia moglie per presentarla alla Signora che così gentilmente mi aveva apostrofato…e trascorremmo il resto del pomeriggio nel bar, parlando con la Signora, di Venezia, della Sua storia, dei ricordi del passato, di noi.
A sera eravamo amici.
La sera successiva eravamo ospiti a cena a casa Sua, ove conoscemmo il Suo “compagno”, odio questa parola, ma non trovo un equivalete. Marito? Non è esatto. Fidanzato? Sembra ridicolo tra persone adulte. Amante? Offensivo e riduttivo.
Roberto era una persona, che senza per nulla conoscerLo, mi suscitò una immediata, intensa, spontanea, inspiegabile simpatia e familiarità, forse per la Sua semplicità, la Sua schiettezza, il Suo viso sincero e riservato, la Sua voce seria e pacata, il tono basso e disteso, gli occhi onesti e dialoganti con i miei, la semplice, profonda bontà che essi esprimevano.
In un battibaleno diventammo amici e ignorando le Signore che parlavano di cucina, ci lasciammo trascinare dal discorso in confidenze personali di vita, fino a che, come se entrambi fossimo arrivati ad un appuntamento predestinato e preordinato, il discorso scivolò impercettibilmente, giunse, approdò, (per caso?) alla I Guerra Mondiale, una delle mie molteplici passioni e della quale Roberto si rivelò essere un profondo e acuto conoscitore.
Parlammo del Grappa, di trincee, di filo spinato, di elmetti italiani Adrian, di corazze Farina, del Carso, del Ponte di Bassano, del Piave, fiume sacro alla Patria, dell’Ortigara, dei Generali che mandavano gli uomini allo sbaraglio in ondate di attacchi ripetuti, per conquistare solo pochi metri di terreno al nemico.
Come sullo schermo di un fantastico, immaginario cinematografo, passavano, scorrevano, davanti ai nostri occhi le scene di guerra, di assalti alla baionetta, di trincee ricolme di fango, di soldati abbarbicati sulle montagne in avamposti impossibili, di mitragliatrici, di granate, di obici e mortai, di attacchi con i gas asfissianti, di orrore e di eroismi, di giovani e giovanissimi caduti, dei “Ragazzi del ’99”, in guerra a soli 18 anni, di eroismi quotidiani e non conosciuti, di immensa sofferenza, di immane catastrofe.
Roberto era un Alpino, aveva compiuto il Suo Servizio Militare negli Alpini, anni addietro e seppure ora vestisse in abiti civili, era e rimaneva un Alpino, per quel discorso cui accennavo prima.
Fu Lui a dirmi, per primo, che Alpini lo si è per sempre, lo si rimane sempre, perché il cappello e la penna nera che lo sovrasta, rimangono per sempre nel loro cuore, e mentre mi diceva questo Gli brillavano gli occhi per la emozione e la commozione, che coinvolsero anche me, suggellando in un attimo la nostra simpatia e sintonia.
Mi mostrò i libri che aveva e le foto, che mai avevo visto prima d’ora, delle trincee, restaurate e conservate, custodite dagli Alpini, come una reliquia, come una memoria sacra, di un passato che appartiene a tutti noi italiani.
La serata trascorse così, tra ricordi di guerra, storie recenti, racconti inediti, canti degli Alpini e Grappa, che a me astemio, fece girare immediatamente la testa, accentuando ancor più quello stato sognante, quello stato crepuscolare nel quale ero ormai piombato e nel quale canti degli Alpini, voci delle mitragliatrici, boati dei cannoni e scoppi di granate, si mescolavano mirabilmente tra loro e con le immagini di trincee fangose, filo spinato, camminamenti scavati nella roccia, urla di feriti e immagini di Ufficiali che al grido di “Avanti Savoia”,incitavano i soldati in grigio-verde, a saltar fuori dalle protettive trincee e andare all’attacco.
Ad ora tarda ci salutammo, con la promessa, sulla porta, da parte di Roberto, di organizzare per me, una visita alle trincee e ai campi di battaglia.
Tornai a Roma, con questa promessa nel cuore, ma con una certa pessimistica sfiducia che mai si sarebbe potuta verificare e realizzare la promessa fatta e che forse Roberto la avrebbe presto dimenticata.
Ma Roberto non dimenticò e qualche mese dopo giunse puntuale la telefonata, con l’invito, a recarmi di nuovo a Venezia, perché saremmo andati in trincea.
Roberto non dimenticò la promessa. Io avevo sottovalutato la promessa di un Alpino. Gli alpini non dimenticano, ciò che hanno promesso e mantengono la parola data.
Tralascio i dettagli della visita alle trincee, non perché non siano interessanti, ma perché sono irripetibili e indescrivibili, non comunicabili, le emozioni che essi suscitarono entro di me, che fino ad allora avevo solamente letto, visto in fotografia, immaginato, quei luoghi, quei campi di battaglia, che ora mi trovavo a visitare personalmente, quei terreni dove si era combattuto e in tantissimi erano morti e sui quali, ora io posavo i miei piedi, quelle trincee nelle quali istintivamente abbassavo il capo, per non essere colpito dai cecchini nemici.
Fu una giornata indimenticabile, commovente, emozionante, gravida di significati e di sensazioni nuove e mai provate, di gioia profonda, ma anche di struggente malinconia, nel trovarmi in luoghi così carichi di significato, di storia, di dolore, di eroismi passati, ma ancora così presenti e pregnanti.
Ma se gli eroismi passati, trascorsi, mai dimenticati, erano presenti e tangibili, nell’aria, nel terreno, nelle trincee e nei camminamenti, nei loculi ricavati nella roccia, per dormire qualche ora tra un attacco e l’altro, in un momento di pausa del combattimento, negli oggetti di uso quotidiano rinvenuti e conservati gelosamente, nelle schegge di granata e nei proiettili inesplosi, un altro eroismo, singolo, privato, solitario, unico, personale, si stava verificando in quel momento e io ne ero testimone e partecipe, consapevole, ma inerme e impossibilitato a fare qualcosa per essere di aiuto.
Roberto, infatti, la mia guida, il mio mentore, il cicerone di questo museo all’aria aperta, di questa galleria di eroismi quotidiani e di quotidiane umanissime sofferenze, inerpicandosi sul terreno scosceso del Grappa, calcando i gradini di pietra, dei camminamenti, camminando nelle strettoie delle trincee, era sempre più, e sempre più visibilmente, sofferente e il suo viso era contratto da un dolore che non proveniva, come per me, da un passato e dalla memoria di questo, ma da un disperato, maledetto, crudele presente.
Il presente di una malattia, grave, molto grave, cattiva, crudele che lo affligge e lo affliggeva da quando aveva da poco superato i venti anni di età, quando era giovanissimo e aveva tutta la vita davanti con tutti i sogni e le aspirazioni che un giovane può avere.
Sogni e aspirazioni interrotti, bloccati, chiusi, negati da una diagnosi orribile, senza speranza, che Roberto, senza essere medico, aveva già formulato da solo, ma che poi venne irrimediabilmente e senza appello confermata dai medici. “Morbo di Burger”.
Detto così non significa niente, ma per noi medici significa tantissimo, purtroppo. Significa una malattia gravissima, che dopo anni di acutissime, insopportabili sofferenze, conduce inevitabilmente alla morte in età giovanile. Significa una malattia per cui progressivamente le arterie, quei tubi che attraversano tutto il corpo e che veicolano il preziosissimo sangue dal cuore in tutti gli organi, progressivamente si ostruiscono, si chiudono, si obliterano e il sangue non arriva più dove deve arrivare, con tutte le conseguenze drammatiche, che è facile immaginare.
Sarà capitato a tutti, avendo accavallato una gamba sull’altra e avendo con questo semplice gesto compresso una arteria, al momento di porci di nuovo in piedi, sentire la gamba come morta, non più rispondente ai comandi provenienti dal cervello, e se malauguratamente la compressione è durata solo un poco di più nel tempo, essere colpiti da dolori lancinanti, insopportabili, insostenibili, provocati dal temporaneo venir meno dell’afflusso di sangue all’arto. Per nostra fortuna, basta ristabilire la circolazione, eliminare la compressione e tutto torna come prima, il dolore cessa in breve tempo.
Ma se quel venir meno dell’afflusso di sangue, non è come a noi accade, temporaneo, ma permanente, definitivo, progressivamente ingravescente, allora i dolori non cessano, ma divengono perenni e sempre più acuti, intensi, insopportabili, insostenibili. E naturalmente ogni movimento, acuisce ancora di più il dolore, a dismisura, aumentando il bisogno di sangue da parte dei muscoli, ma tale bisogno non è possibile soddisfarlo, perché il sangue non arriva più.
Naturalmente i primi a soffrire sono gli arti inferiori, i piedi, le estremità, più lontane dal cuore e quando il flusso di sangue diviene così scarso, da non riuscire a nutrire nemmeno un poco i tessuti, questi muoiono e subentra la gangrena. Allora per cercare di salvare la vita al paziente bisogna amputare e sempre più in alto, via via che la gangrena sale.
La dinamica, la logica di questa malattia è semplice e crudele, e come un albero in inverno perde le foglie, così un uomo, nell’inverno della sua esistenza, perde parti di se stesso, prima le dita dei piedi, poi i piedi, poi le gambe e infine la vita stessa.
Il mio amico Roberto si è incamminato per questa via, quando aveva venti anni e già allora conosceva bene il percorso a Lui riservato, avendo perso il padre, per la stessa malattia, quando era ancora bambino.
Oggi, ogni passo, ogni metro da percorrere a piedi è per lui un supplizio, per i dolori che gli provoca, e ciononostante aveva voluto farmi da guida lo stesso, nelle Sue trincee, per insegnarmi, per illustrarmi, per scoprire, nei miei occhi e nel mio viso, lo stupore e la meraviglia di quella giornata fantastica sul Monte Grappa.
Avevo assistito all’ennesimo eroismo di un Alpino.
La giornata si concluse con una cena indimenticabile, assieme agli Alpini del Gruppo di Ramon, che mi avevano accolto tra Loro, nella Loro sede, con canti di montagna e Grappa, costringendomi, per quella volta, a non essere più astemio e a cantare con Loro.
Tornai a Roma, con negli occhi e nelle orecchie le immagini dei Loro volti, dei Loro occhi, delle Loro voci, dei Loro canti e nelle mani una cassettina di legno, da Loro confezionata, avvolta in un nastro tricolore e contenente per me, oggetti raccolti in trincea, reliquie, per Loro e per me, e che mi avevano donato. La promessa reciproca di rivederci tutti alla prossima Adunata Nazionale, quest’anno, a Latina, il 10 di Maggio.
Chi non conosce gli Alpini, non sa, non può comprendere, quanto per Loro sia importante, fondamentale, indispensabile partecipare alla Loro Adunata, cui accorrono tutti, da tutte le parti di Italia e anche dai paesi esteri più lontani. Per Roberto in particolare è ed è sempre stata una occasione, una ragione per sentirsi ancora vivo e presente.
Mancavano pochi giorni alla data fatidica, che attendevo con ansia e trepidazione e tutto era pronto per il grande evento, quando, una sera ricevetti una telefonata, improvvisa e inaspettata, una telefonata di Roberto, che con voce emozionata, nella quale non mi fu difficile riconoscere i segni della commozione, mi annunciava la Sua impossibilità a partecipare all’Adunata:
“Domenico, sono ricoverato in ospedale. I dolori sono diventati insostenibili e forse dovranno amputarmi un piede. Non posso venire all’Adunata. Io non potrò sfilare assieme agli altri, ma voglio che almeno sfili il mio cappello da Alpino. Voglio che sia tu a portarlo in capo, così assieme a te e al mio cappello, sarò anche io, idealmente, con voi. Lo porteranno giù gli Alpini e tu lo indosserai per me, al posto mio”.
La telefonata terminò qui, perchè né Lui, né io, avevamo voglia, desiderio, o bisogno di aggiungere altro.
La mattina del 10 di Maggio, alle prime luci del sole, a Latina, gli Alpini mi consegnarono, mi affidarono il cappello con la penna nera di Roberto.
Assieme al cappello, una piccola busta stropicciata dal viaggio, sulla quale erano scritte solo due parole, ma nelle quali lessi e riconobbi immediatamente la grafia della “Compagna di Roberto”, la Signora veneziana conosciuta al bar: “Per Domenico”:
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Caro Domenico,
scusa se non ti
scrivo su qualcosa di più decente
che su questi foglietti da appunti, ma, in realtà sto usando quello che ho
sottomano. Sono poche parole scritte di getto e sono
dedicate a due “tipi” alquanto speciali che conosco e amo.
Sono a casa di Roberto. Sono le 15,30. Questa sera il copricapo di Roberto
partirà con Marilena alla volta di Latina perchè, per suo espresso desiderio,
tu abbia a sfilare, indossandolo, nel giorno più importante di tutte le Adunate
Alpine.
Il Suo desiderio è questo ed io non posso che avvallarlo con immensa gioia.
Non conosco nessuno che più di te sia degno di rappresentare l’uomo che amo
in un momento simile.
Consegno a te, attraverso il suo cappello, anche il suo spirito, la sua
lealtà alla sua terra e la sua onestà verso essa e verso gli amici che lo
circondano.
Ti prego porta tutto questo con te in quella parata.
Portalo nel tuo spirito e nel tuo grande cuore .
So che la tua essenza intrecciata a quella di Roberto renderanno quella
Penna Nera la più lucida, la più forte, la più alta di tutte le altre e
ti
farà incontrare anche solo per un secondo con il SIGNORE DELLE CIME.
Con immenso affetto
Kika
E così, con queste parole nel cuore e con il cappello di Roberto sul capo, ho sfilato, assieme a tantissimi altri Alpini, per le vie di Latina, in quel meraviglioso 10 di Maggio del 2009.
Mi correggo, il cappello di Roberto ha sfilato per le vie di Latina, recato, portato, sorretto indegnamente da me, ma sotto quel cappello non c’ero io. C’era Lui, c’era Roberto e per questo la Penna Nera sul cappello era la più lucida, la più forte, la più alta di tutte le altre, come certamente ha voluto e desiderato il SIGNORE DELLE CIME.
Dicono che quando si muore ci passino in un battibaleno, davanti agli occhi, le immagini dei momenti più significativi e importanti della nostra vita.
Sono certo che quando toccherà a me di “andare avanti” una delle poche immagini sarà rappresentata da quel cappello con la lunga Penna Nera, la più lucida, la più forte, la più alta di tutte le altre.
Domenico Mazzullo