Amicizia

Non nascondere

il segreto del tuo cuore

amico mio!

Dillo a me, solo a me

in confidenza.

Tu che sorridi così gentilmente

dimmelo piano,

il mio cuore lo ascolterà,

non le mie orecchie.

La notte è profonda

la casa silenziosa,

i nidi degli uccelli

tacciono nel sonno.

Rivelami tra le lacrime esitanti

tra sorrisi tremanti,

tra dolore e dolce vergogna

il segreto del tuo cuore.

Rabrindranath Tagore

Non conoscevo questa poesia di Tagore, anzi lo confesso, non conosco molte poesie, oltre quelle faticosamente mandate a memoria ai tempi della scuola, perché non amo la poesia, non la comprendo, non ho mai scritto poesie neppure nel periodo adolescenziale, quando sembra che sia d’obbligo scriverne e leggerle ai malcapitati, obbligati ad ascoltarle, ma questa di Tagore l’ho compresa e mi è subito entrata nel cuore e da lì non esce anche volendo, ma non lo voglio.

Sono rimasto stupito io stesso, attonito e non so darmene ragione, non ne trovo altre che il contenuto e l’argomento della poesia stessa: l’amicizia, una emozione, mi correggo un sentimento a me molto molto caro e che pongo al primo posto in una ideale gerarchia di sentimenti, sempre che sia lecito e consentito, possibile stilarne una, come in una immaginaria gara degli affetti.

Alcuni, molti certamente, porrebbero al primo posto, è naturale, l’amore, il sentimento più nobile, secondo il senso comune, più coinvolgente, più esaltante, più ricercato e sofferto, se non trovato, più descritto, più decantato, più amato, più presente e protagonista rispetto a tutti gli altri, fratelli tutti, ma fratelli minori.

Io invece pongo l’amicizia al primo posto, forse perché sono figlio unico, forse perché la solitudine mi è stata compagna per lungo tempo, forse perché sono abituato a riflettere con me stesso, forse perché per attitudine e ora anche per professione, ricevo le confidenze, i dolori, i patimenti, i turbamenti degli altri, ma li tengo per me, li devo tenere per me, senza a nessuno confidarli, a nessuno comunicarli, perché altrimenti violerei un segreto, forse perché a volte questo fardello di sofferenze si fa un po’ troppo pesante, i dubbi personali e le incertezze divengono un po’ troppo pressanti e si vorrebbe condividerle. Con chi? Ma naturalmente con un amico. Non per avere da lui delle risposte, delle soluzioni, dei chiarimenti, ma semplicemente e modestamente per ricevere da lui un conforto, la comprensione, anche silenziosa che solo un amico può darci.

E l’amore direte Voi? Non può darci anche l’amore tutto questo e ancora tanto di più?

Credo proprio di no. L’amore può darci tante, tante altre cose preziose ed importanti, desiderabili e desiderate, ma proprio questo no.

L’amore è lotta, è passione, è esaltazione, è sofferenza anche, a volte, spesso, è combattimento, vittoria e resa, rinuncia anche, ma mai, mai amicizia. Non potrebbe, non può, pena la sua fine e la sua distruzione.

“Non ti amo più, ma rimaniamo amici”. “Non ti amo, ma sei il mio migliore amico”.

Quante volte abbiamo ascoltato queste frasi, queste parole, quante volte le abbiamo anche pronunciate, mentendo a noi stessi e all’altro, forse per indorare la pillola amara, forse per addolcire una dura verità subita o propinata.

Quanta ipocrisia in queste parole, quanta falsità, quanto squallore, mi si consenta la parola, nel mettere a confronto due sentimenti, l’amore e l’amicizia, che nulla hanno a che fare, l’uno con l’altro, che brillano ogniuno di luce propria, che vivono autonomi ed indipendenti, che non coesistono nella stessa persona e verso la stessa persona, ma che artatamente ci sforziamo di mettere a confronto, subordinando l’uno all’altro, secondo una gerarchia che ha dell’assurdo e del malvagio.

Non siamo amanti, ma almeno siamo amici. L’amicizia come premio di consolazione per un amore che risulta impossibile, o non voluto per uno dei due.

Ma perché amici? L’amicizia è forse un legame di serie B, più modesto e meno impegnativo, meno coinvolgente ed esigente, più facilmente recidibile o meglio eludibile, sfilacciabile ed allentabile, quando non è più tempo di continuare, quando la stanchezza o la noia si fanno sentire, si insinuano subdolamente nei nostri rapporti?

Io non credo proprio e il solo pensiero mi fa inorridire e provare terrore, perché se questo sentire, questa convinzione si insinua entro di noi e nella nostra società, allora ogni speranza è persa, ogni possibilità di sopravvivenza, non certo fisica, quanto piuttosto morale e spirituale per la nostra umanità è definitivamente persa e distrutta.

Perché penso questo, perché affermo questo con convinzione?

Perché l’amore con la sua violenza, con la sua forza corre veloce, si insinua subitamente entro di noi, ci avvolge e ci avviluppa, ci confonde, ci scuote e ci percuote, ma altrettanto rapidamente a volte ci abbandona, lasciandoci vuoti e attoniti, indifferenti all’altro.

L’amicizia no.

Al contrario procede lentamente, nasce con difficoltà e con difficoltà si sviluppa e si evolve, lentamente ed inesorabilmente, si muove a piccoli passi, lenti ma sicuri, richiede costanza e pazienza, attenzione, dedizione, studio ed equilibrio, volontà e passione.

Ci si conosce e ci si innamora subito, in un battito d’ali, un colpo di fulmine, ma si diventa amici lentamente invece, giorno dopo giorno, pazientemente e con costanza.

Ecco perché privilegio l’amicizia sull’amore ecco perché la considero più nobile e preziosa, più indispensabile alla nostra stessa vita.

Posso citare, posso elencare vari esempi a prova e riprova di quanto sostengo e credo fermamente, tratti dalla mia vita privata, dalla mia esperienza di psichiatra, ma forse questi avrebbero il vizio, il difetto della soggettività, della appartenenza e derivazione professionale e allora scelgo di rivolgermi alla letteratura, che nella sua universalità gode di maggior credito e considerazione.

Penso alle parole che Micòl Finzi-Contini, splendida e affascinante protagonista dell’Opera più conosciuta e famosa di Giorgio Bassani, appunto “Il giardino dei Finzi Contini” rivolge a Giorgio, rivelandogli di volerlo come amico, ma non come amante: ”Un amante lo voglio di fronte, un amico al mio fianco”.

Non meno pregnanti, chiare ed illuminanti, le parole, il colloquio che si svolge tra la volpe ed il Piccolo Principe, nel capitolo proprio alla amicizia dedicato da Antoine De Saint Exupèry nel Suo “Il Piccolo Principe” e che, ogni qual volta le rileggo, quando ho desiderio di rinnovellarle entro di me, quando ne ho bisogno nei momenti bui, mi consolano e con mia soddisfazione mi evocano commozione e pianto:

Vieni a giocare con me-le propose il piccolo principe-sono così triste…-Non posso giocare con te-disse la volpe-non sono addomesticata.

-Ah! Scusa -fece il piccolo principe….Cerco degli amici. Che cosa vuol dire addomesticare?-

E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire creare dei legami…

-Creare dei legami?-

-Certo- disse la volpe.-Tu fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure Tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo-….-Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano che è dorato mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…-Non si conoscono che le cose che si addomesticano -disse la volpe – Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!-

Ma amore e amicizia sono accomunati però da qualcosa; qualcosa li unisce inesorabilmente ed ineludibilmente nell’ambito dei sentimenti umani: entrambi in un attimo possono finire, svanire, perdersi, scomparire, lasciando dietro di sé lo stesso vuoto e lo stesso dolore, lo stesso sgomento e la stessa disperazione.

Ma oggi voglio parlare di amicizia, devo parlare di amicizia e per farlo non ho trovato di meglio che aprire la mia “scatola dei ricordi”, la scatola ove sono contenute, racchiuse, mai ordinate, ma confuse, l’una sull’altra in un marasma generale che non rispetta nessun ordine cronologico, nessuna categoria di catalogazione, le mie foto del passato, le foto della mia infanzia assieme a quelle della adolescenza e della età matura, in un coacervo di bianco e nero e di colori che mi affascina e mi sgomenta, mi rende felice, facendomi saltare da momenti della mia vita ancora vicini e ben presenti a me stesso, a epoche passate, ormai lontanissime, quasi dimenticate, ma immediatamente rievocate e rammentate dallo stimolo visivo.

Una vera giostra del tempo, del tempo della mia vita.

Ma questa volta non guardo a casaccio, non pesco nel mucchio a occhi chiusi, lasciando alla sorte il compito di suggerirmi alla memoria questo o quell’altro periodo della mia vita. Questa volta vado a colpo sicuro, cerco una foto in particolare, una foto che conosco molto bene e che saprei descrivere a mente nei suoi minimi particolari per quante volte l’ho ammirata e rimirata.

Ma eccola comparire avanti a me, eccola farsi largo tra le altre, eccola reclamare il suo diritto di priorità e di privilegio sulle altre. E’ una foto in bianco e nero e risale ai primissimi anni ’50.

Raffigura due bambini, di due o tre anni, di tre anni per precisione, lo rammento bene, assieme ad una automobilina a pedali di metallo, la plastica ancora non esisteva, che per foggia ricorda e richiama evidentemente le auto di quell’epoca, dei primi anni ’50.

La foto, naturalmente in bianco e nero, come si conviene a quel tempo lontano, non rende merito ai colori, ma l’auto, ne sono sicuro, era rossa, di un rosso fiammante, con pneumatici di lusso, a fascia bianca laterale, come si usava allora in quelle dei grandi. Sullo sfondo un orribile mobile, moderno per quegli anni, con orrende decorazioni floreali e vegetali sul fronte.

Il bambino in piedi, che volenterosamente spinge l’auto, indossa dei meravigliosi calzoncini corti di maglia, confezionati a mano, di taglia abbondante, per coprire evidentemente lo spazio di più anni, mentre quello comodamente seduto in auto, un grembiulino azzurro sovrastante i vestiti buoni per non consumarli. Sul retro della foto, scritta a matita con grafia femminile che ben conosco e riconosco con commozione, una data: 21 giugno 1952.

Ma come faccio a conoscere così bene tutti questi particolari?

Ovvio e facilmente immaginabile: uno dei due bambini sono io, e per la precisione quello seduto al volante, felice, nel giorno del suo terzo compleanno.

L’altro, quello che spinge, ma ben presto ci saremmo scambiati i ruoli, nel rispetto, fin da allora, della parità dei diritti, il mio amico di infanzia A.A. , il fratello che io, figlio unico non ho mai avuto.

 E siamo ancora amici, anche se le auto non sono più quelle di allora e un’auto la possediamo entrambi, ma non più a pedali, anche se Lui non mi spinge più e non più indossa i pantaloni corti di maglia, fatti a mano.

Ora Lui è un avvocato di valore e docente universitario, io uno psichiatra, ma la nostra amicizia è la stessa di allora, a dispetto del tempo che è trascorso, dei capelli che non ci sono più sul capo di entrambi, delle vicende della vita che hanno segnato entrambi indelebilmente.

Quando Lui, nel 1986 si ammalò di una grave malattia, molto seria, della quale, io per primo ebbi il sospetto, e per la quale la sopravvivenza prevista nella migliore delle ipotesi era breve, molto breve, piangendo, in un momento di commozione, dissi a mio padre: “Perché proprio a lui che ha moglie e una figlia? Perché non a me, che non ho nessuno?”.

Mio padre non capì, o finse di non capire e non profferì risposta, come sempre.

Ora la malattia non è guarita, ma è sotto controllo. La Medicina in questi anni ha fatto miracoli.

Mi legano a Lui tantissimi ricordi sparsi nel tempo, tantissime avventure, tanti dolori, ma soprattutto un grandissimo affetto che dura dalla nascita, nonostante le grandissime differenze caratteriali, che inizialmente solo intuibili, sono ora evidentissime in uomini maturi.

E mentre scrivo mi accorgo con commozione ed emozione che mi compaiono avanti agli occhi i quali si velano di un sottile manto di lacrime trattenute, immagini e ricordi che si affastellano l’uno sull’altro in maniera disordinata e confusa e senza un ordine cronologico, ma con l’unico denominatore comune di rappresentare episodi della nostra vita in comune.

Si distinguono, le immagini, l’una dall’altra, solo per gli abiti che indossiamo, testimonianza di diverse età e di diverse epoche storiche e per i sentimenti che esse suscitano, ora lieti, ora più di frequente tristi e malinconici, ma tutti velati dello stesso tono di struggente nostalgia.

C’è il ricordo, di quando, armati di tutto punto fin da casa, ci recavamo nei mesi estivi lontani dalla scuola, a Villa Borghese, teatro dei nostri giochi di guerra, ove una fontana che tutt’ora è presente, si trasformava in Forte Apache, assediato dagli indiani e subito si sovrappone a questo il ricordo delle prime feste nella casa ospitale di una comune amica, teatro dei miei primi devastanti insuccessi sentimentali e al contrario dei suoi invidiati successi.

Sorrido nel rievocare entro di me la tragicomica esperienza di due viaggi devastanti che compimmo assieme, nei fantastici anni ’70 appena iniziati, con la mia mitica 500, addirittura fin nella lontana Ungheria, allora ancora in pieno clima sovietico. Ne riportai il frutto di una esperienza agghiacciante, di cui porto ancora il segno indelebile e che tutt’ora è ben viva nella mia mente.

Ci sono i fumetti che leggevamo assieme discutendo animatamente sul valore di Topolino, il mio preferito, rispetto a Paperino cui andava la Sua maggiore simpatia, indice già nella prima infanzia di evidenti differenze, caratteriali ed ideologiche, che più tardi si sarebbero espresse nella loro piena interezza.

Ma un episodio è ben chiaro e scolpito nella mia mente e risale ai primissimi anni ’50, se ben ricordo il ’52, quando avevo tre anni: eravamo entrambi intenti a giuocare, quando mio padre, tornando da scuola, era un maestro elementare, mi consegnò, come a volte avveniva, un piccolo regalo, ma che a me appariva sempre meraviglioso; questa volta si trattava di un piccolo carretto attaccato ad un cavalluccio di legno di colore marrone; il mio amico. il quale evidentemente e sin da allora nutriva simpatie comuniste, che in età adulta sarebbero diventate una seria militanza, per nulla comprensivo del mio diritto alla proprietà, si appropriò proditoriamente e violentemente del carretto con annesso cavallo, accingendosi a giuocarci da solo.

“Lascialo, é mio”; le rigide, violente parole che immediatamente pronunciai, a difesa della mia proprietà, ancora mi risuonano nella mente ed ora mi pesano in modo insopportabile, così come ho sempre davanti agli occhi lo sguardo attonito, intimidito, timoroso e smarrito del mio amico, colto in flagrante; ma ciò che maggiormente e più acutamente ricordo e mi affligge, è l’adulto e violentissimo senso di colpa, che mi colse a tradimento, immediatamente dopo aver pronunciato quelle parole sfortunate, infelici, e che mi costrinse, mi obbligò, mi impose di cedere il mio regalo all’amico, senza più poter giuocare con esso.

Ci sono anche altri ricordi, tanti, dolorosi, ma che non voglio ricordare.

Ma subito dietro la prima, un’altra foto si affaccia, si presenta, proditoriamente e violentemente alla mia vista; un caso? Una fortuita coincidenza? Oppure essa è stata richiamata lì, si è voluta presentare alla mia attenzione, suggestionata dal discorso in atto, invogliata, quasi costretta dalla forza del ricordo? Una casualità, o un fenomeno paranormale di quelli che ogni giorno sono sotto i nostri occhi senza che ci si presti attenzione?

Anche questa foto è in bianco e nero, pur risalendo ad un’epoca più recente, seppur anch’essa lontana nel tempo. Non posso descrivere i personaggi ad uno ad uno, perché sono troppi e la loro disamina e descrizione annoierebbe i lettori.

Posso dire solamente che si tratta di una classica foto scolastica, di quelle che normalmente affollano gli album, gli annuari delle scuole, ma questa è una foto particolare, almeno per me, unica ed irripetibile: è la foto della mia classe, la III E, l’ultimo anno del Liceo, poco prima degli esami di Maturità, nell’ormai lontanissimo 1969, l’anno del primo piede umano che calpestò il suolo della luna, per gli altri, per la Storia, ma per noi e solo per noi, “l’anno della nostra Maturità”.

Ci sono i miei compagni. Tutti? Quasi tutti, sulla scalinata prospiciente l’ingresso del “Regio Liceo Giulio Cesare” di Roma.

Gli abiti sono testimoni dei tempi e i nostri visi smunti e forzatamente, artificialmente sorridenti esprimono tutto il timore e l’ansia per i prossimi esami.

Il 12 Giugno scorso, in occasione del quarantunesimo anniversario della “nostra Maturità”, ci siamo rivisti “tutti”, per ricordare.

Sulla stessa scalinata una nuova fotografia, riassumendo “tutti” le stesse posizioni di allora.

Ho posto la parola “tutti” tra virgolette, non a caso, o per una svista, ma coscientemente e volontariamente.

Non eravamo tutti presenti fisicamente: alcuni mancavano all’appello perché già non più qui tra noi, altri perché gravemente ammalati. Assenti giustificati.

Alcuni erano assenti perché forse non hanno avuto il coraggio di confrontarsi con il tempo che passa, non hanno avuto il coraggio di affrontare lo sgomento di non riconoscere l’altro che ti sorride e ti saluta, o di non essere riconosciuto, non hanno avuto il coraggio di scoprire nel viso degli altri quei mutamenti che inevitabilmente debbono aver colpito anche lui. Assenti ingiustificati.

Ma purtuttavia eravamo “tutti presenti all’appello”, presenti e assenti, giustificati e non giustificati, tutti assieme un’altra volta, uniti tutti nel ricordo di ciascuno, nell’affetto, nella solidarietà, nella fratellanza, che sola unisce e cementa indissolubilmente chi ha avuto la fortuna di vivere assieme, in quella età, una esperienza così importante e determinante, come quella della scuola.

A cena, più tardi, per vincere la malinconia che subentrava, si insinuava e rischiava di sommergermi, ho cercato di distaccarmi, di lasciare indietro le emozioni e di osservare ad uno ad uno i miei compagni, chi medico, chi avvocato, chi Prefetto, chi Consigliere di Stato, chi dentista, chi professore, ma anche chi semplice impiegato, chi non ha avuto successo materiale e non ha fatto carriera, chi ha visto i suoi sogni frustrati e delusi, anzi soprattutto lui.

Siamo rimasti tutti eguali a noi stessi, ciascuno con le sue caratteristiche già ben visibili ed intuibili già da allora, con i suoi pregi e difetti, con le sue miserie e le sue nobiltà.

Ci siamo lasciati con la promessa solenne di rivederci tutti il prossimo anno.

Chissà se ci saremo tutti, ancora lì, su quella stessa scalinata.

Mi accorgo solo ora, e con sgomento, che avrei dovuto parlare dell’Amicizia e invece mi son lasciato prendere la mano e ho parlato della mia amicizia.

Avrei dovuto parlare del concetto di “Amicizia”, del “De amicitia” di Cicerone, della amicizia per Aristotele nella ”Etica Nicomachea”, avrei voluto raccontare di Oreste e Pilade, di Eurialo e Niso, di Achille e Patroclo, di Narciso e Boccadoro, avrei voluto citare i libri che parlano di amicizia e che dobbiamo leggere, se vogliamo comprendere qualcosa di questa, “Capitani Coraggiosi” e “I libri della giungla” di Kipling, “I ragazzi della via Paal” di Molnar, “Cuore” di De Amicis, “Pinocchio” di Collodi, “Il giornalino di Gian Burrasca” di Vamba, “L’amico ritrovato” di Uhlman, “Il bambino con il pigiama a righe” di Boyne, “Le braci” di Sandor Màrai, “Anniversario degli esami di Maturità” di Werfel, “Cirano di Bergerac” di Rostand e in fine “La grammatica di Dio” di Stefano Benni, come meraviglioso, struggente, commovente esempio di amicizia tra un cane ed un uomo, avrei voluto invitarVi a vedere, o rivedere, film come “Arrivederci ragazzi”, “Smoke”, “Il grande freddo”, “L’Attimo fuggente”, “Il declino dell’impero americano”, “Le invasioni barbariche”, “Tempesta di ghiaccio” “La scelta di Sophie”, “Cabaret”, L’Uomo di Alcatraz” , “Amici miei”, “C’eravamo tanto amati”, “Una gita scolastica”, “Festa di Laurea”, “L’ultima estate-ricordi di una amicizia”, “Ragazze interrotte”, “Mystic river”, “American graffiti”, “Stand by me”,”Moonlight & Valentino”, “Mignon è partita”, “Pomodori verdi fritti”, “Gli anni spezzati”,”Il bambino con il pigiama a righe”, “Hachiko” e invece egoisticamente Vi ho parlato della “mia amicizia”.

Vi chiedo scusa e per farmi perdonare prendo commiato chiamando in aiuto Aristotele:

Cos’è un amico? Una singola anima che vive in due corpi.”

Domenico Mazzullo

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