A dangerous method

Ho visto il film di David Cronenberg “A dangerous method” il giorno stesso in cui è uscito in programmazione nelle sale cinematografiche.

Mi sembrava un obbligo, un tributo doveroso al regista che così coraggiosamente, o imprudentemente si è addentrato nel terreno scottante dei due “padri della psicoanalisi”, o meglio del “padre” e del “figlio”, che come in ogni buona famiglia, in questo caso quella della psicoanalisi, si ribella al padre che vuole esercitare ancora la sua autorità e il suo potere su di lui, e rompe con lui i rapporti, si oppone a lui, per percorrere una sua strada autonoma, o forse per definire la sua personalità, per proclamare la sua indipendenza e autonomia.

Nihil sub sole novi dicevano gli antichi e anche in questo caso si dimostra quanto avessero ragione e quanto avessero compreso, molto prima della psicoanalisi, la natura umana, le sue debolezze, le sue dinamiche interiori e la forza delle passioni al di là ed al di sopra di ogni ragionamento, in termini di rapporti “padre-figlio” e anche naturalmente “uomo-donna”.

Ho visto, dicevo, il film nello stesso primo giorno in cui è uscito e al termine di questo, a chi mi ha chiesto un parere e se mi fosse piaciuto, ho risposto, senza troppo pensare, un “no” secco, deciso, sicuro, inappellabile, immediato e non frutto di riflessione o elaborazione, e precisando che il film mi appariva ben fatto, con somma cura dei particolari, della ambientazione, dei costumi, dell’arredamento, ma privo o scarsamente dotato di contenuto, freddo, didascalico, distaccato, privo di anima, in ultima analisi, una bella cornice, ricca, elegante, prestigiosa, ma mancante di un quadro adeguato ed alla altezza della preziosità della cornice.

Devo onestamente ammettere che nel giudizio negativo così impulsivamente espresso, sono stato influenzato certamente ed involontariamente, dal paragone con l’ottimo, stupendo film di Roberto Faenza “Prendimi l’anima” che tratta la stessa vicenda, ma forse dalla angolazione, certamente più affascinante, edificante sul piano morale, e profonda nei sentimenti, della protagonista femminile Sabina Spielrein, fino alle Sue esperienze di medico in Russia, il Suo paese, e alla Sua tragica fine per mano dei nazisti.

Confesso che non sarei più tornato sul film, archiviandolo nella memoria tra quelli visti, ma dei quali non serbare traccia oltre un certo tempo ed un certo spazio, per non ingombrare un contenitore mnestico, non infinito e già sufficientemente affollato, per non sottrarre luogo necessario ad altri film più importanti e da rammentare invece per sempre.

Confesso che se non fosse stato per questo articolo richiestomi, certamente questo sfortunato film sarebbe stato traghettato rapidamente nel territorio inesplorato dell’oblio della mente e lì vi sarebbe rimasto per sempre, ma la richiesta di scrivere su esso, mi ha obbligato, visto il mio senso del dovere, a rivederlo altre due volte, per ben esaminarlo di nuovo, per coglierne dei significati che alla prima visione mi fossero sfuggiti, per modificare eventualmente il mio giudizio, per ravvedermi, se fosse stato necessario e conseguentemente pentirmi.

Nel frattempo, sempre per quell’innato senso del dovere di cui sopra, ho acquistato in libreria e letto tutto d’un fiato il libro, tradotto in italiano ed edito per i tipi della Casa editrice Frassinelli, da cui il film è stato tratto, scritto dallo psicologo clinico statunitense di New York John Kerr ed intitolato in originale “A Most Dangerous Method”, tradotto con il titolo italiano di “Un metodo molto pericoloso”, libro che uscì nel nostro paese già nel lontano 1996, ma al quale il pubblico non dedicò molta attenzione, ed edito una seconda volta adesso, sulla scia della versione cinematografica, come testimonia il richiamo evidente in copertina, con una immagine emblematica del film.

Con molta sincerità auguro al libro miglior sorte di quanta ne ha avuta in precedenza, perché è un lavoro molto pregevole, accuratissimo, molto documentato ed attendibile, riguardante una vicenda reale di cui solo da poco tempo abbiamo preso conoscenza, ma anche una epoca storica, un rapporto umano, una rivalità, anche essa molto umana, un ambiente scientifico, un clima culturale, una costruzione intellettuale, che avrebbe avuto risvolti imprevedibili, che avrebbe influenzato la cultura, la letteratura, il costume, l’educazione, il modo di pensare, il comune sentire, il cinema e il teatro, i rapporti umani, i codici morali, i comportamenti etici, non solo al presente, ma anche anzi soprattutto nel futuro e nel cui influsso e influenza ancora siamo pienamente immersi e sommersi, anche a tanti anni di distanza e soprattutto in un ambito scientifico le cui acquisizioni avrebbero dovuto sopravanzare e mettere in crisi quanto era stato proposto ed accettato come scienza.

Mi riferisco ovviamente alla Psicoanalisi, al “metodo psicoanalitico” molto opportunamente definito, nel libro e nel film “un metodo molto pericoloso”, ma forse il termine “pericoloso” è usato, in entrambi, con una intenzionalità e in una accezione ben diversa da quella in cui la intendo io. Ma non voglio anticipare i tempi.

Il libro di John Kerr, si legge come un romanzo, un romanzo storico che si svolge nei primi anni del 1900 tra la Vienna di Sigmund Freud e la Zurigo di Karl Gustav Jung ed ha come protagonisti maschili i due padri della psicoanalisi, o meglio come dicevo avanti, il padre ed il figlio prima prediletto e scelto dal padre come suo successore, il quale figlio quando raggiunge la maggiore età si ribella al padre, ne contesta le idee e sceglie di percorrere una sua strada autonoma e solitaria, perpetuando quello che dal padre fu visto, letto ed interpretato come un tradimento.

In mezzo a questi due protagonisti maschili a completare i tre vertici di un triangolo classico e, mi si consenta, scontato nella sua essenza ed esistenza, una donna una giovanissima donna russa, ebrea russa, affascinante quanto enigmatica, Sabina Spielrein, prima paziente di Jung, poi quasi inavvertitamente scivolata nel ruolo di sua amante e poi, dopo il rifiuto e ripudio di questi, divenuta paziente di Sigmund Freud, (anche amante? Forse. Non è dato saperlo, ma plausibile ipotesi visto il costume regnante in quel periodo e non solo, negli ambienti psicoanalitici e la attenzione di Freud verso le giovani pazienti.).

Sabina Spielrein fu testimone quindi della rottura drastica, ineludibile, inappellabile, inevitabile, aggiungerei io, tra il maestro Sigmund Freud e il suo allievo prediletto, di grandi speranze, figlio spirituale del primo e suo erede in pectore, destinato a proseguire la strada tracciata dal padre-maestro e invece transfuga, traditore irriconoscente e irriverente, così fu considerato da chi si ritenne vittima del tradimento, oppure autonomo scopritore di una nuova via, da percorrere in libertà e coerenza interiore, secondo chi ne fu artefice e i suoi seguaci.

Sabina Spielrein fu testimone di questo dissidio incolmabile, di questa frattura, di questa lacerazione dell’ideologia psicoanalitica da poco nata. Solamente testimone? O anche causa inconsapevole, involontaria responsabile?

Non è dato saperlo, ma è giusto ed opportuno, a mio parere sospettarlo ed ipotizzarlo alla luce delle debolezze e delle miserie inconfutabili dell’animo umano, delle umane meschinità, delle umane rivalità, che consapevoli della loro umile natura, amano ammantarsi di paludamenti ideologici, nobili e rispettabili, susseguiosi e altisonanti, per coprire, per nascondere le proprie nudità, le proprie vergogne, le proprie ragioni inconfessabili ed inconfessate.

Ricordo a questo proposito la meravigliosa opera del nostro Luigi Pirandello “Vestire gli ignudi”.

Se la vicenda della frattura, della incolmabile rottura tra Freud e Jung, può, deve essere vista ed interpretata come il logico, naturale conflitto, inevitabile e sano, tra un padre che non vuole rinunciare alla sua autorità, alla sua supremazia, al suo potere ed un figlio che, resosi autonomo e fattosi consapevole di esserlo, reclama il proprio diritto a staccarsi da chi gli ha dato la vita, per percorrere, pur rispettandolo e riconoscendogli il merito, una propria via autonoma, libera, nuova, personale, non rinnegando, ma diversificandola da quella da cui proviene, se è vera ed attendibile, comprensibile e logica questa interpretazione, perché non dovrebbe essere altrettanto vera, o almeno plausibile, ipotizzabile, intuibile, quella meno nobile e meno onorevole, ma forse più umana, più terrena, più comprensibile e comune, della naturale, eterna rivalità tra due uomini, tra due maschi della specie umana, che lottano e si contendono le grazie e i favori di una femmina, di una donna, che amante prima dell’uno e da questi rifiutata, si è rivolta coscientemente e consapevolmente all’altro, suscitando la struggente gelosia del primo, seppur artefice della rottura, ma incapace di tollerare l’idea che il suo “giocattolo”, rifiutato, fosse diventato il godimento di un altro, dell’altro, del padre il cui potere suscita invidia, gelosia, rivalsa?

Perché i padri della psicoanalisi, coloro che a loro dire hanno per primi scandagliato le viscere profonde e nascoste dell’animo umano, avrebbero dovuto essere immuni, esenti o vaccinati contro le passioni, recondite, nascoste, occulte di quello stesso animo umano che loro stessi avrebbero investigato, ma di cui sono inevitabilmente anche loro portatori e vittime?

Forse che l’investigare l’animo umano con la lente della psicoanalisi ci rende superiori, immuni, esenti dalle sue miserie e meschinità?

O che l’investigatore, lo scopritore, lo scrutatore è al di sopra degli altri, dei suoi oggetti di studio e di indagine, nonché di teorizzazione, moderno superuomo al di là del bene e del male, occupante una dimensione di extraterritorialità ove le leggi umane, della psiche umana, da lui scoperte e codificate non contano, non vigono, non esistono, o meglio per lui, in veste di legislatore, non valgono?

E che dire della povera Sabina Spielrein che “curata” da Jung, secondo il nuovo rivoluzionario metodo inventato da Freud e da lui applicato, si è, povera lei, giovanissima e isterica, innamorata del suo medico e salvatore Karl Gustav Jung, secondo le migliori tradizioni della neonata psicoanalisi, provando entro di sé quell’impetuoso sentimento che la stessa psicoanalisi ha denominato “transfert”, evocando inevitabilmente nel suo medico un sentimento o una passione analoga, chiamata, per pudore “controtransfert” e di cui anche Jung fu naturalmente vittima?

Ma purtroppo la storia ci insegna che se Sabina era giovanissima e libera, Jung altrettanto non era, né giovanissimo, né libero essendo sposato ad una donna ricchissima e per giunta in attesa di un figlio, donna che naturalmente contribuiva copiosamente al benessere economico del medico di Zurigo.

Orbene a Sabina non occorse molto tempo per irretire, con le sue arti femminili, accentuate dalla personalità isterica, dal fascino della sua patologia, o presunta tale e dalla sua determinazione, il cuore e l’anima del suo dottore il quale, senza farsi troppo pregare, scelse per la sua giovane paziente una terapia molto più personale e privata, particolare ed esclusiva, nonché molto più economica per la sua paziente stessa, visto che rinunciò volontariamente ad ogni compenso pecuniario, come ebbe a precisare più tardi, per difendersi da accuse poco onorevoli circa la sua professionalità.

Ma purtroppo Jung non era solo, aveva famiglia, ossia una figlia e soprattutto una moglie gelosa e ricchissima, alla quale egli non seppe rinunciare in favore del suo sogno d’amore assieme alla giovane Sabina, per la quale sicuramente provava una passione superiore a quella residua nei confronti della moglie, ma purtroppo per lei non dotata dello stesso benessere economico e della stessa rassicurante immagine borghese nella quale Jung viveva, operava, e si produceva.

Così, drammaticamente per la povera Sabina, il nostro giovane medico-amante, quando la moglie scoprì la tresca e minacciò di far scoppiare lo scandalo, essendosi limitata per ora solo a spedire lettere anonime, con una brusca impennata di sensi di colpa, di senso di responsabilità, di desiderio di espiazione e di normalizzazione, ma soprattutto di borghese e rassicurante tranquillità, dette improvvisamente e ineluttabilmente il benservito alla povera paziente-amante, riducendola tout-court al primitivo ruolo di sola paziente, proponendole di tornare allo status quo ante, dimenticando quanto ci fosse stato tra loro.

La povera Sabina non sopportò lo shock, la delusione e lo sgomento e sentendo di aver bisogno, ora ancor più di prima, di un trattamento psicoanalitico ulteriore e profondo, delusa dal medico, ma non dal metodo, ritenuto non ancora pericoloso, non pensò di meglio che rivolgersi direttamente al padre, non ancora contestato, della psicoanalisi, al dottor Freud in persona, padre putativo e mentore del suo ex medico-amante, recandosi a Vienna presso il suo studio di Bergasse 19.

Chi pensa male sostiene che la scelta proprio di Freud, come suo medico, da parte di Sabina Spielrein, sia stata dettata, forse, anzi certamente del tutto inconsciamente, da un femminile desiderio di vendetta nei confronti di colui che la aveva rifiutata.

Il risultato della sua indagine psicoanalitica ci è ignoto e quindi su questa ipotesi non abbiamo lumi.

Qui, a Vienna, divenendo una nuova paziente di Sigmund Freud, paziente privilegiata, vista la sua provenienza, potette godere del paternalistico aiuto del medico, della sua didattica vicinanza, della sua illuminante presenza e sostegno, tanto che riuscì a concludere gli studi di Medicina iniziati sotto la giurisdizione e la guida di Jung, e a divenire una psicoanalista anche lei, gratificata dall’onore di vedersi affidare dei casi dallo stesso Sigmund Freud.

Ma soprattutto Sabina Spielrein potette assistere personalmente al maturarsi e al concludersi dell’ormai irrimediabile, profondissimo dissidio tra i due psicoanalisti, che giunsero infine ad interrompere ogni loro rapporto definitivamente e per sempre.

Per dovere di cronaca dobbiamo dire che Sabina, ormai psicoanalista, si schierò sempre dalla parte di Freud, prendendone le parti anche nei propri scritti scientifici, non ripagata purtroppo da una analoga considerazione da parte di questi nei suoi confronti, ma forse il Maestro era troppo in alto per prendesi cura e attenzione dei suoi allievi e discepoli.

Fin qui la storia, meravigliosamente narrata, trattata e analizzata da John Kerr nel suo libro, cui va il merito incontestabile di aver gettato una luce scientifica, se possibile, ma almeno quanto mai documentata, sui complessi e controversi rapporti tra i due medici, i due psicoanalisti, ma soprattutto i due uomini, così fondamentalmente diversi tra loro, eppure così influenti l’uno sull’altro, così vicini, eppure così opposti, viennese uno, svizzero l’altro; ebreo uno, ariano l’altro; ebreo uno protestante l’altro; di famiglia modesta uno, di provenienza più abbiente l’altro; rigidamente materialista uno, sempre più attento e affascinato dal trascendente l’altro; fortemente sicuro di sé e del proprio valore uno, tormentato dai dubbi l’altro; ma entrambi accomunati dalla  viscerale passione per “un metodo molto pericoloso”.

Da quanto detto si evince come sia stata una impresa difficile, ardua e pericolosa tradurre in immagini, ridurre nelle rigide regole di un film le vicende, non tanto fisiche e materiali, quanto piuttosto psicologiche, affettive, emozionali, interiori e soprattutto intime dei tre personaggi che si trovarono ad essere protagonisti, testimoni ed artefici di un momento importante della nostra storia, della nostra cultura, della nostra stessa esistenza, non dico scienza, a puro titolo personale, perché non considero e non ho mai considerato la psicoanalisi una scienza.

Mi assumo tutta intera la responsabilità di quanto affermo.

Dopo aver letto il libro di John Kerr, da cui il film è tratto e avendolo rivisto altre due volte, in occasione della stesura di questo articolo, devo umilmente ammettere che il mio giudizio riguardo al film, forse troppo frettolosamente espresso, o a mia discolpa formulato sulla scia delle emozioni conseguenti a quanto avevo visto per la prima volta sullo schermo, è radicalmente cambiato, mutato, sovvertito, invertito, dovendo confessare, prima a me stesso e poi agli altri, la mia superficialità, la mia avventatezza, la mia precipitosità nel giudicarlo negativamente e conseguentemente riconoscere essere esso invece un ottimo film, perfettamente fedele e aderente al testo scritto e, per quanto possibile attraverso le immagini, capace di descrivere egregiamente i tre personaggi protagonisti, soprattutto nei loro caratteri più peculiari, nelle rispettive strutture di personalità, condizionanti e determinanti il loro comportamento, le loro scelte, anche le loro ideologie e le loro rivalità e conflittualità, le loro umane debolezze e le loro linee di forza, le loro paure, le loro meschinità umane, la loro fine.

Il film, infatti, condensa nelle due ore di immagini e dialoghi le seicento pagine documentatissime del libro da cui è stato tratto e da cui prende le mosse, fornendoci un quadro condensato ma esaustivo, esauriente, immediatamente coglibile ed interpretabile, comprensibile e verificabile dei personaggi, attori e protagonisti della vicenda personale ed intima e privata, ma anche involontari, o semivolontari protagonisti di una vicenda culturale, di costume, di storia, di letteratura, di educazione, di ambiente, non di scienza, perché di scienza non si è trattato, almeno a mio modesto parere, anche se come tale si è voluta ammantare e glorificare, vicenda che prende il nome di psicoanalisi e di cui ancora oggi, a più di cento anni si parla e si discute, si cita, ci si incontra e ci si scontra, si legge e si opera, si “cura” o si presume di farlo, soprattutto dicevo si parla, spesso a sproposito e con superficialità, presumendo da parte di molti di conoscerla, mentre non la si conosce affatto, se non per sentito dire, il che è, mi si permetta, troppo poco ed insufficiente.

Il film ha il merito, a mio parere, di gettare uno sguardo, impietoso, crudo ma veritiero, sulla personalità, sulla intimità, sull’anima, sulla morale, sulla più profonda natura, di due uomini, che furono ritenuti, e lo vengono tuttora, ritenuti “grandi”, nel campo del pensiero, della psicologia, della conoscenza dell’animo umano, ma che furono essi stessi vittime e portatori di quelle stesse debolezze, di quelle stesse meschinità, di quelle stesse miserie dell’animo, che fanno di tutti noi, nessuno escluso, degli esseri umani a pieno diritto, di due uomini che si ritennero, ogniuno nella propria individualità e personalità, al di sopra degli altri, mentre, sempre a mio parere, non lo furono affatto, ma si inserirono, a pieno diritto, in quella categoria, o specie che si chiama Umanità, con tutte le sue altezze e bassezze, con tutte le sue miserie e le sue nobiltà, con tutti i suoi egoismi e le sue generosità, i suoi atti coraggiosi e le sue vigliaccherie, i suoi meriti e i suoi difetti, le sue meschinità e le sue generosità.

Chi si ritiene meglio degli altri, solo per questo certo non lo è. Chi si ritiene al di sopra degli altri, forse è al di sotto o al massimo pari agli altri. Nessuno escluso.

Non fu meglio degli altri Sigmund Freud, chiuso nel suo orgoglioso distacco e nella sua prosopopea di padre della psicoanalisi, che non accettava critiche, che non accettava contrasti o visioni dissimili dalle sue, incapace di autocritica e di ripensamenti, paranoicamente certo di essere nel giusto.

Tutti sanno che nel 1938, nella Vienna occupata dai Nazisti a Sigmund Freud venne concesso il privilegio di fuggire all’estero, portando con sé i propri cari. Nella lista composta dal fondatore della psicoanalisi entrarono la moglie, i figli, la cognata, le due assistenti, il medico personale con la famiglia, e perfino il cane.

Ma non le quattro anziane sorelle, Marie, Rosa, Pauline e Adolfine, che dimenticate, abbandonate dall’illustre fratello al loro destino, morirono tutte in campo di concentramento.

Non fu meglio degli altri Karl Gustav Jung, il quale, roso dai dubbi, dalle incertezze, dai ripensamenti, dai sensi di colpa, e forse anche da un puro e semplice calcolo economico, dopo aver tradito il Giuramento di Ippocrate, avendo fatto di una sua paziente la propria amante, quando vide messa in pericolo la sua reputazione e il suo benessere tranquillamente e gaudentemente borghese, grazie alle sostanze copiose della moglie, ripudiò la sua paziente-amante e la abbandonò al proprio destino, turbato solamente, non dai rimorsi, ma dal disappunto perché la sua ex paziente-amante si era rivolta, per proseguire la cura interrotta, a Sigmund Freud, ormai già rivale ed antagonista.

Ma Jung dimenticò presto la povera Sabine, consolandosi, sostituendola con una nuova paziente, divenuta anche essa amante. Repetita iuvant.

Forse fu meglio degli altri in generale, ma certamente dei primi due sì, la povera Sabina Spielrein la quale, superstite e ripresasi dalle cure dei suoi due medici, divenne anche Lei medico e poi psicoanalista ahimè.

Sposata ad un ebreo russo, tornò nel suo paese di origine, ove si dedicò, non a teoriche elucubrazioni filosofico – psicologiche come facevano i suoi maestri, ma molto più concretamente alla cura dei bambini più poveri, istituendo i famosi “Asili bianchi” ove venivano assistiti i bambini più poveri o orfani.

Ma la vita, come spesso succede, non ricompensò la povera Sabina con la gloria che invece arrise agli altri due e con gli onori conseguenti.

Fu, infatti, perseguitata da Stalin perché ebrea e successivamente, quando la Germania invase la Russia, sempre perché ebrea, fu uccisa, assieme alle figlie dai nazisti.

Tutto questo nel film di Cronenberg non c’è.

Esso si ferma prudentemente prima, ma è sufficiente a gettare uno sguardo, a farci capire e comprendere il clima nel quale la psicoanalisi nacque e prese corpo e vigore, l’ambiente della alta borghesia e nobiltà viennese e mitteleuropea in genere, non certo alle prese con problemi bassi e banali, infimi, tipici del proletariato o della popolazione rurale costituiti da difficoltà reali di sopravvivenza fisica, di necessità materiali, di bocche da sfamare, di malattie vere e serie, dovute alla denutrizione o alle pessime condizioni igieniche e di vita, ma piuttosto con ben più gravi problemi e difficoltà serissime, ossia con turbamenti dell’animo e crisi esistenziali nate e sviluppatesi nei salotti della società benestante, ove le problematiche erano certo più elevate e nobili, più complesse e difficili, più affascinanti e impegnative, fatte esse di traumi infantili non risolti, di insoddisfazioni coniugali, di rivalità muliebri  e frustrazioni femminili, il tutto condito con un sottofondo di sessualità nascosta e repressa, occultata e rimossa, vero flagello di quella società, che non aspettava altro che il genio liberatore di Sigmund Freud il quale, armato della arma segreta della psicoanalisi, finalmente giungesse a liberarla da secolari catene che la avvinghiavano e la costringevano, impedendone la normale e salutare espressione.

E finalmente venne il giorno tanto atteso della liberazione, non collettiva, ma dei singoli pazienti, i quali, per mezzo del fatale strumento della psicoanalisi cui si affidavano per anni, riuscivano finalmente, dopo un difficilissimo, durissimo e lungo lavoro a conquistare infine la propria libertà.

Alcuni di questi pazienti, ma solo quelli di sesso femminile, giovani e piacenti, potevano coronare la loro liberazione divenendo anche amanti, vestali addette al talamo del sommo sacerdote della psicoanalisi e dei suoi discepoli, in primis, come abbiamo avuto modo di vedere, Karl Gustav Jung, e dei tanti altri che come e dopo di lui abbracciarono la neonata religione.

Sì perché di religione si tratta, quando si parla di psicoanalisi, non di scienza, perché questa ultima, la scienza, si muove terra terra, sul terreno infido e sdrucciolevole delle teorie che devono essere dimostrate da prove sperimentali, mentre solo la religione e con essa la psicoanalisi, possono godere del privilegio, dell’onore di enunciare dogmi che, per definizione, non sono tenuti all’onere della prova.

E come fondatore di una nuova religione laica, si comportò Sigmund Freud il quale, enunciati una serie di dogmi, nelle sue opere, non ammise mai, ripeto mai, mai concesse che essi potessero essere messi in discussione, criticati, confutati, ma tacciò come eretici e dissacratori coloro i quali, dal di dentro, osavano proporre dei dubbi, delle strade nuove, delle incertezze, delle riflessioni ulteriori.

Per primo ne fece le spese Jung, seguito da tanti altri, tacciati di eresia ed espulsi dal tempio.

Il film in questione, con poche immagini, ma soprattutto con gli interminabili e noiosi, dotti dialoghi tra i due protagonisti maschili, ci rende perfettamente ragione di quanto detto in precedenza e ci proietta in un attimo nel mondo incantato e fumoso delle fantasie e delle elucubrazioni mentali dei due medici che, arrogatisi il diritto di curare le anime dei loro pazienti, dimenticando completamente quale è il primo dovere del medico, ossia quello di curare, guarire se possibile, lenire le sofferenze dell’altro, si inerpicano, moderni alpinisti della mente, o sprofondano, speleologi degli abissi dell’animo, in discorsi teorici, fumosi e incomprensibili, noiosi e inconcludenti, inapplicabili e autoreferenziali, tesi solo a gratificare l’ego di chi li formula e di chi li produce, o di costituire il terreno per battaglie ideologiche assolutamente fini a se stesse e destituite di ogni valore e significato pratico, che in questo caso sarebbe, particolare trascurabile e trascurato, rappresentato dalla finalità di curare e guarire i pazienti.

Se gli stessi discorsi fossero stati formulati da due filosofi cultori di filosofia teoretica, non avrei avuto nulla da obiettare, ma in bocca a due medici, mi risultano offensivi nei confronti della sofferenza vera dei malati, quelli veri, almeno e non quelli fittizi e di comodo.

Mi si consenta solo di descrivere una scena, che considero emblematica del film e della materia in questione: Sigmund Freud, circondato dai suoi discepoli, tra i quali ancora per poco Jung, sulla nave che li sta portando a New York, in vista della Statua della Libertà, chiede retoricamente ai suoi apostoli ”Ma si rendono conto che gli stiamo portando la peste?”.

Forse l’unico, vero momento di sincerità, di consapevolezza, di modestia, di autocoscienza del moderno “untore”, il quale ha sparso il contagio di una pestilenza che ancora ci domina e ci soggioga, con le sue mille ramificazioni e forme diverse.

I lettori avranno certamente compreso che non provo simpatia, ammirazione, considerazione per la psicoanalisi, la sua teoria e la sua prassi, i suoi sacerdoti e i suoi sostenitori, i suoi adepti, ma solo una profonda compassione e solidarietà nei confronti di chi ne è vittima inconsapevole.

Credo che alla ideologia psicoanalitica e  ai suoi derivati, che ha permeato e che continua a dominare la nostra società, la nostra cultura, la nostra educazione, sia da addebitare la colpa di aver fatto morire, di aver condannato alla estinzione,  il senso di responsabilità, individuale e collettiva, fondamentale pilastro interiore di ogni individuo e di ogni società civile e dal quale scaturiscono direttamente i sensi di colpa, se quella responsabilità non la abbiamo assunta.

In questo riconosco alla psicoanalisi, perfettamente meritato l’appellativo di “Un metodo molto pericoloso”.

E per concludere e non annoiare oltre l’incauto lettore, torno per un attimo al primo giudizio espresso a caldo dopo la prima visione del film e del quale mi sono pentito:

“a chi mi ha chiesto un parere e se mi fosse piaciuto, ho risposto, senza troppo pensare, un “no” secco, deciso, sicuro, inappellabile, immediato e non frutto di riflessione o elaborazione, e precisando che il film mi appariva ben fatto, con somma cura dei particolari, della ambientazione, dei costumi, dell’arredamento, ma privo o scarsamente dotato di contenuto, freddo, didascalico, distaccato, privo di anima, in ultima analisi, una bella cornice, ricca, elegante, prestigiosa, ma mancante di un quadro adeguato ed alla altezza della preziosità della cornice.

Perché, mi sono chiesto, se il film, ad una analisi ed una lettura più approfondita e attenta, ora mi appare valido e ben fatto, perché tuttavia mi è apparso “freddo, didascalico, distaccato, privo di anima”?

Non il film, ma la psicoanalisi e i suoi inventori sono privi di anima.

Domenico Mazzullo

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