…..che Cristiano era bello.

…..che Cristiano era bello.

Non è certo possibile leggere e immaginare la Storia con i “se” e con le ipotesi su cosa sarebbe accaduto se Hitler avesse vinto la guerra, se Cesare non avesse traversato il Rubicone, se Pilato non si fosse “lavato le mani” e avesse preso invece una precisa posizione, ma non trattandosi di Storia vissuta, ma solo di un’opera letteraria, possiamo permetterci la libertà di giocare di fantasia e chiederci, non senza una certa curiosità e malizia, cosa sarebbe accaduto, se la bellissima Rossana, la fanciulla che fece innamorare ed ammaliò con il suo volto ed il suo sorriso ben tre uomini contemporaneamente, non si fosse fermata alla bellezza statica e inespressiva del bel Cristiano, ma edotta di fisiognomica, avesse letto dietro il volto, certo esteticamente non troppo accattivante, del cugino Cyrano, la sua anima nobile, la sua sensibilità, la sua generosità pronta al sacrificio estremo, il suo coraggio e il suo anelito di libertà.

Certo il capolavoro di Edmond Rostand, il “Cyrano di Bergerac”, non avrebbe visto la luce; certo noi non avremmo potuto godere della lettura delle sue pagine toccanti e commoventi, certo tante riproduzioni teatrali e poi anche cinematografiche non avrebbero mai visto la gloria del palcoscenico e le lacrime degli spettatori, me compreso, davanti alla morte di Cyrano, o alla scena della lettera, non letta, ma recitata a memoria, quando la scarsa luce del tramonto si era fatta troppo fioca per consentire a chiunque di leggere, o alla scena del balcone che ha fatto impallidire di invidia anche l’analogo balcone di Giulietta e Romeo di Shakespeare; ma è anche certo che, se Cyrano fosse stato compreso, al di là e al di sopra delle apparenze, nella sua essenza e per questo amato da Rossana, non avrebbe sofferto, come invece ha sofferto, anche se solo nella fantasia di Edmond Rostand.

Forse e purtroppo, non tutti ricordano l’amara, triste vicenda di Cyrano, ma certo tutti ricordano ed identificano Cyrano per il suo lungo naso spropositato:

 Enorme il mio naso?

Vilissimo camuso, siate ben persuaso

che di quest’appendice mi glorio e mi delizio;

avvenga che un gran naso sia il vero e proprio indizio

di un uomo buono, affabile, cortese, liberale,

di coraggio e di spirito, qual io mi sono e quale

non vi sarà mai lecito di credervi, marrano!

Cyrano, però è ben oltre e molto di più: è l’eroe romantico, che si sacrifica per amore, è l’antesignano del Werther di Goethe, che fa un passo indietro, per un amore oblativo e disinteressatamente generoso, è l’uomo moderno, che conscio della propria finitezza e dei propri umani limiti, soffre di questa cosmica solitudine, è l’uomo che non scende e non si abbassa a compromessi con gli altri e men che meno con la propria coscienza, alla quale non concede sconti né oblio; è l’uomo solo che lotta strenuamente per la propria libertà e la propria dignità, è l’uomo che di fronte alla invincibile, inesorabile nemica, la morte, vuole affrontarla tuttavia coraggiosamente in piedi, a viso aperto.

Ella viene. I miei piedi già son di marmo.Già

ho di piombo le mani.

Ma poi ch’è per la strada, voglio aspettarla in piedi…

E con in man la spada!

Ma Cyrano, purtroppo, è irrimediabilmente brutto, e tuttavia, disperatamente innamorato, così descrive la bella e irraggiungibile cugina Rossana:

Una calamità

mortal senza che voglia squisita e non lo sa;

un’insidia vivente, una rosa moscata

tra le cui foglie amore s’asconde in imboscata.

Chi la vide sorridere conobbe l’Ideale.

Ella fa della grazia con un niente: ella è tale

Che pon tutto il divino nel minor dei suoi gesti.

Né tu montare in conca, Madre d’Amor, sapresti,

né tra i boschi fioriti camminar tu Lucina,

com’ella monta in seggiola, e com’ella cammina!…

Ma Rossana, ahimè, pur senza conoscerlo ancora, ma avendolo solamente visto di lontano, ama invece Cristiano, ammaliata superficialmente dalla sua bellezza:

Brilla

Nel suo volto lo spirito eletto, la scintilla

Del genio. E’ fiero, nobile, giovine, forte, bello…

Per chi conosce la vicenda il resto è noto, con il suo triste epilogo, ma la grandezza di Cyrano, non si compendia e si esaurisce solamente nel generoso e coraggioso sacrificio della sua persona a favore di Cristiano per amore di Rossana. Egli è il campione dello spirito libero, è il prototipo dell’uomo che non si piega a compromessi con altri e con se stesso, per ottenere favori e vantaggi dalla vita:

Orsù che dovrei fare?…

Cercarmi un protettore, eleggermi un signore,

e dell’ellera a guisa, che dell’olmo tutore

accarezza il gran tronco e ne lecca la scorza,

arrampicarmi, invece di salire per forza?

No, grazie! Dedicare, com’usa ogni ghiottone,

dei versi ai finanzieri? Far l’arte del buffone

pur di vedere alfine le labbra di un potente

atteggiarsi a un sorriso benigno e promettente?

No, grazie! Saziarsi di rospi? Digerire

lo stomaco per forza dell’andare e venire?

Consumar le ginocchia? Misurar le altrui scale?

Far continui prodigi di agilità dorsale?

No, grazie! Accarezzare con mano abile e scaltra

la capra e intanto il cavolo innaffiare con l’altra?

E aver sempre il turibolo sotto dell’altrui mento

per la divina gioia del mutuo incensamento?

No, grazie! Progredire di girone in girone,

diventare un grand’uomo tra cinquanta persone,

e navigar con remi di madrigali, e avere

per buon vento i sospiri di vecchie fattucchiere?

No, grazie! Pubblicare presso un buon editore,

pagando, i propri versi! No, grazie dell’onore!

Brigar per farsi eleggere papa nei concistori

che per entro le bettole tengono i ciurmatori?

Sudar per farsi un nome su di un picciol sonetto

Anzi che scriverne altri? Scoprire ingegno eletto

agli incapaci, ai grulli; alle talpe dar ali,

lasciarsi sbigottire dal romor dei giornali?

E sempre sospirare, pregare a mani tese:

-Pur che il mio nome appaia nel Mercurio francese?

No, grazie! Calcolare, tremar tutta la vita,

far più tosto una visita che una strofa tornita,

scriver suppliche, farsi qua e là presentare?…

Grazie, no! Grazie no! Grazie no! Ma…cantare,

sognar sereno e gaio, libero, indipendente,

aver l’occhio sicuro e la voce possente,

mettersi quando piaccia il feltro di traverso,

per un sì, per un no, battersi o fare un verso!

Lavorar, senza cura di gloria o di fortuna,

a qual sia più gradito viaggio, nella luna!

Nulla che sia farina d’altri scrivere, e poi

modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi

tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia

pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccogli a!

Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte,

non dover darne a Cesare la più piccola parte,

aver tutta la palma della meta competa,

e, disdegnando d’essere l’ellera parassita,

pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto

salir anche non alto, ma salir senza aiuto!

E quando ormai è prossimo a morire, di fronte a Rossana, finalmente consapevole, ma ormai troppo tardi, del generoso e silente amore del cugino, lo stesso Cyrano recita il suo epitaffio:

Ecco il destino mio:

far da suggeritore, – e meritar l’oblio!

Ricordate la sera in cui nell’ombra nera

Cristiano vi parlò? E’ tutta in quella sera

la mia vita. Ed intanto che io son restato,

altri a cogliere il bacio della gloria è montato!

E’ giusto, ed io consento sull’orlo dell’avello

che Molière ha genio, che Cristiano era bello!

Ma perché, per ammissione universale e consapevolezza di tutti, Rossana e Cristiano sono belli, mentre Cyrano è irrimediabilmente brutto?

Cosa ci fa affermare che un volto è bello, mentre un altro è brutto?

Sembrerebbe una domanda mal posta, una domanda alla quale si potrebbero fornire molteplici risposte, equivalenti quindi a nessuna risposta. Si potrebbero invocare fattori soggettivi, storici, culturali, di gusto personale e quindi non codificabile né quantificabile, si potrebbero evocare fattori estetici legati ai tempi, alle mode, ai costumi di epoche diverse, si potrebbe far ricorso al solito luogo comune secondo cui “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”, ma se vogliamo uscire dall’ambito della facile aneddotica e utilizzare un ragionamento più propriamente scientifico, una risposta chiara, precisa ed esaustiva ci proviene da una delle più antiche e forse odiate discipline: la matematica. Appartiene a questa, infatti, e sin da epoche antichissime il concetto e la definizione di Sezione Aurea, termine introdotto nel 1835 e che ha sostituito quelli precedenti ed equivalenti di rapporto aureo, numero aureo, numero di Fidia, costante di Fidia e in fine di proporzione divina.

La data di nascita di questo concetto è precisa e conosciuta, il 300 a.C. e spetta ad Euclide, il noto matematico di Alessandria d’Egitto, la sua paternità. Egli descrisse per la prima volta il rapporto, da allora identificato con la lettera greca phi, chiamandolo proporzione estrema e media e corrispondente al numero irrazionale 1,618033….

Egli ne fornì anche una rappresentazione grafica più evidente e comprensibile:

Un segmento diviso in due parti a e b tali che il rapporto tra l’intero segmento a+b e la parte più lunga a sia uguale al rapporto tra la parte più lunga a e la parte più corta b.

Euclide descrisse anche un rettangolo aureo, i cui lati a e b sono in proporzione aurea.

L’incauto lettore che ci ha seguiti fin qui si tranquillizzi. Non intendo, infatti, assolutamente trascinarlo in uno scosceso ed infido discorso matematico, fatto di formule algebriche e astruse costruzioni geometriche, incomprensibili ai più, me compreso e che certamente esulerebbe dagli scopi e dai modi di quest’articolo, ma mi preme solamente far rilevare come questa semplice formuletta, questo numero magico frutto di un semplice rapporto geometrico, rappresenti la struttura portante, la modalità attraverso la quale noi umani percepiamo l’armonia delle cose, sia nell’ambito di ciò che esiste in natura, sia di ciò che è prodotto dall’essere umano, in tutte le sue espressioni.

Se ad Euclide va l’indubbio merito di aver scoperto e descritto, matematicamente questa proporzione, alla luce di quanto conosciamo oggi, dobbiamo pensare che essa fosse ben nota e utilizzata, anche in epoche precedenti:

Una straordinaria applicazione della Sezione Aurea la riscontriamo, per esempio inaspettatamente nei Megaliti di Stonehenge, nei quali il rapporto tra gli elementi, sempre di 1,6 fa sì che ci sia una giusta proporzione, tra la larghezza e l’altezza delle aperture, o tra un cerchio di pietre e l’altro.

Questo fa sì che stando dentro al monumento ci si sente a proprio agio e non si avverte l’incombenza della struttura.

Anche gli antichi Egizi dovevano essere ben a conoscenza del concetto di Sezione Aurea, se è vero che una sua applicazione inconfutabile la riscontriamo nella Stele del re Get, proveniente da Abido (antica capitale dell’Egitto nel periodo predinastico) ed oggi al Louvre. Essa è costituita da un rettangolo aureo, nella cui parte bassa il quadrato costruito sul lato più corto, Sezione Aurea di quello più lungo, contiene la città, mentre nella parte restante, che è ancora un rettangolo aureo, è riportato il serpente simbolo del re. Il reperto risalirebbe a quasi 5000 anni fa.

La Sezione Aurea fu anche applicata nella costruzione delle piramidi: la piramide di Cheope, per esempio, ha una base di 230 metri ed un’altezza di 145; il rapporto base/altezza corrisponde a 1,58, molto vicino quindi a 1,6.

Ma spetta certamente ai Greci, il merito indubbio di aver meglio studiato ed applicato i principi di quest’aurea proporzione.

In ambito matematico essa fu studiata dai Pitagorici, i quali geometricamente scoprirono che il lato del decagono regolare inscritto in una circonferenza di raggio r è la Sezione Aurea del raggio e congiungendo un vertice sì ed uno no, di esso decagono, costruirono, sempre inscritto nella medesima circonferenza, il pentagono regolare intrecciato, o stellato, o stella a cinque punte, pentagramma, considerato simbolo dell’armonia e adottato come loro segno di riconoscimento.

Ma è nell’architettura e nella scultura greca che la Sezione Aurea mostra il meglio di se stessa, se pensiamo solamente al Partenone costruito secondo i principi della suddetta proporzione, o numero di Fidia e alle statue in esso presenti, quali le Korai dell’Eretteo.

Più vicino a noi, i romani, grandi architetti e costruttori di strutture monumentali che è superfluo ricordare, utilizzarono con dovizia il rapporto di proporzioni che abbiamo descritto.

Per tutti e perché in esso è più evidente citiamo solamente l’Arco di Costantino, il più importante degli archi trionfali romani, costruito nel 313 d.C. per celebrare la vittoria dell’imperatore Costantino su Massenzio.

L’altezza dell’arco centrale divide l’altezza totale secondo le proporzioni della Sezione Aurea, mentre i due archi più piccoli, laterali, giocano lo stesso ruolo nella distanza tra la base e il listello inferiore.

E per terminare questa breve carrellata sull’applicazione della Sezione Aurea nell’architettura, non possiamo dimenticare la cattedrale di Notre Dame di Parigi, interamente progettata e costruita secondo le proporzioni del rettangolo aureo.

Con un piccolo salto temporale, solo di alcuni secoli, nel 1509 il matematico italiano Luca Pacioli, pubblicò a Venezia, un compendioso trattato, “de Divina Proporzione”, nel quale, analizzando, minuziosamente e puntigliosamente le caratteristiche architettoniche del passato, il corpo umano e le strutture biologiche allora conosciute, dimostrò come in tutte queste fosse presente il rapporto di proporzioni per primo descritto da Euclide, cui dette, religiosamente, nello spirito del tempo, il nome di Divina Proporzione, e che oggi, laicamente chiamiamo Sezione Aurea, sostenendo che proprio alla presenza di questo rapporto fosse da attribuirsi l’armonia, la gradevolezza per l’occhio umano e quindi in ultima analisi la bellezza di tali opere di natura, o frutto dell’attività umana.

Particolare, non del tutto irrilevante: il matematico Pacioli si avvalse, per la stesura del suo lavoro, della sostanziale collaborazione dell’amico Leonardo da Vinci, il quale partecipò alla costruzione e all’elaborazione dell’opera teorica con ben sessanta illustrazioni che fornivano e sostanziavano la dimostrazione figurativa delle tesi matematiche dell’amico.Il libro e le tesi di Pacioli ebbero una rilevanza e risonanza grandissima presso i contemporanei ed i posteri, artisti e non, che si avvalsero delle sue intuizioni e conclusioni. Cito solo a modello esemplificativo, tra i più famosi Botticelli, Piero della Francesca, Bernardino Luini, Durer, Mondrian.

Nell’articolo dello scorso numero, abbiamo preso in considerazione Leonardo in qualità di acuto cultore di studi fisiognomici e plausibile autore di un trattato sull’argomento, purtroppo andato perduto, di fruitore della fisiognomica, come strumento principe per investigare i “moti dell’animo”, di autore della teoria dell’occhio, cioè della pittura come “finestra dell’anima”.

Proprio a questa pittura leonardesca, torniamo oggi a far riferimento, in quanto in essa troviamo indiscutibilmente le migliori e più specifiche testimonianze dell’interesse dello eclettico scienziato vinciano, per il nostro concetto di “divina proporzione” come elemento chiave dell’armonia e dell’ordine nelle umane cose, naturali e dall’uomo prodotte.

Nella mia personale ricerca sulla Sezione Aurea, mi sono fortunosamente e fortunatamente imbattuto in un illuminante, quanto interessante articolo di Marco Bussagli, Geometrie del sorriso, che mi sembra opportuno riportare, nelle sue parti essenziali, perché può, a mio parere, contribuire grandemente al nostro discorso: “Sarà di certo capitato anche a voi di farvi ammaliare dal fascino della Gioconda di Leonardo. Nel momento in cui la si guarda, a dispetto del vetro di protezione che la custodisce, Monna Lisa sembra volerti parlare e pare guardare te solo in un rapporto dialogico esclusivo, capace di essere inteso anche senza parole. Un simile effetto Leonardo dovette ottenerlo non soltanto con la magia dei toni e del celebre “sfumato leonardesco”, che rende l’atmosfera brumosa e soffusa, ma prima di tutto, dosando sapientemente quegli elementi che costituiscono lo schema della composizione.

Questione di rettangoli.

Il motivo di tale coinvolgimento è da imputarsi, se non esclusivamente, certo in buona parte, al fatto che l’occhio sinistro della Gioconda, ossia il destro guardando la figura, giace esattamente sulla linea mediana dell’intera composizione. In altre parole: se si divide a metà il ritratto con una riga verticale, essa passerà per il centro della pupilla sinistra. Questo vuol dire che l’occhio dipinto si avvantaggia d’una simile posizione privilegiata e chi osserva monna Lisa negli occhi finisce per trovarsi, con lo sguardo, al centro del quadro. Non è tutto. Se si avrà l’accortezza di prendere in considerazione il lato lungo della tavola come se si trattasse di un segmento AB, e di ricavarvi la Sezione Aurea secondo il semplice metodo di costruzione geometrica che individuerà il punto X, sicché AB : AX = AX : XB, non sarà difficile constatare che quella, ossia AX, copre la distanza fra il margine superiore della tavola e il muro che si eleva alle spalle della figura. Se poi si avrà cura di spostare il segmento AB in modo che questo sia tangente all’angolo di quel che rimane della base di una delle due colonnine che simmetricamente dovevano inquadrare lo sfondo e la donna, si vedrà che su detto segmento è possibile costruire un rettangolo aureo che comprende l’intero dipinto, fino alla base dell’altra colonnina scomparsa. Si noti che, nella costruzione del rettangolo, il passaggio tecnico che vede l’individuazione della linea mediana che segna a metà il quadrato costruito sul segmento aureo, passa esattamente per la bocca di monna Lisa contribuendo a segnare giusto il punto nel quale Leonardo dipingerà l’enigmatico sorriso. In ogni modo, con la realizzazione del rettangolo aureo, la figura della donna è, in pratica, tutta contenuta all’interno della nuova figura geometrica. La costruzione del rettangolo aureo spiega anche l’inclinazione e la collocazione delle mani di Monna Lisa. Le diagonali del rettangolo che eccede il quadrato costruito sul segmento aureo segnano, infatti, le posizioni delle mani della donna. Ma l’immagine nasconde anche altri segreti compositivi impostati sull’impiego di opportune figure geometriche. Considerando la linea mediana della tavola, già individuata in precedenza, si possono disegnare, entro i lati lunghi del rettangolo aureo, due circonferenze d’identico raggio i cui perimetri siano, a loro volta, reciprocamente tangenti a livello della scollatura dell’abito della donna che viene così disegnata dal cerchio superiore il quale, a sua volta, ha il centro nell’occhio della figura. Ancora: dal punto d’intersezione della linea mediana della tavola con il cerchio superiore, è possibile far discendere un triangolo isoscele la cui base giace sulla linea d’angolo del muro che fa da sfondo a mona Lisa. In questo modo la parte superiore della figura è completamente contenuta dal triangolo stesso. Poi, prendendo in considerazione soltanto il cerchio superiore, non sarà difficile constatare che, all’interno di questo, è possibile individuarne un altro, concentrico, che segna l’ingombro della testa della Gioconda definendone così l’altezza (visto che è tangente all’angolo del mento) e la curva del cranio coperta dai capelli scriminati . Tenuto conto dei punti di tangenza fra la testa della donna e il cerchio appena disegnato, sarà abbastanza facile intuire che la figura geometrica che ha guidato le scelte di Leonardo deve essere stata quella dell’ottagono. Iscritto nella circonferenza e orientato opportunamente questo sarà infatti tangente all’angolo inferiore del mento, al margine inferiore della mandibola, a parte del velo, a due punti della calotta cranica e al velo che scende lungo il collo per un totale di cinque punti su otto che denomineremo con altrettante lettere. Allora, se si avrà l’accortezza di unire l’angolo in C con quello in F con un segmento, per farlo intersecare dalla linea mediana del volto che passa per la scriminatura della fronte, il dorso del naso e il tubercolo del labbro superiore, s’individuerà un punto O, che giace al centro della fronte. Da qui, aprendo il compasso con lo stesso raggio della circonferenza in cui è iscritta la testa della figura, si potrà tracciare il cerchio che sottende all’andamento enigmatico del sorriso di monna Lisa. Si otterranno così due cerchi uguali, con i rispettivi centri sul medesimo asse, ma eccentrici fra loro di poco meno della metà del raggio.

Coincidenze evidenti.

Io stesso, nonostante la mia scarsissima attitudine per la geometria e per il disegno, mi sono cimentato, munito diligentemente di matita, compasso e righello nell’operazione che Marco Bussagli suggerisce, scempiando una fotografia della Gioconda, tratta da un vecchio libro di Storia dell’arte del liceo e nonostante i miei gravosissimi limiti ho potuto rigorosamente riscontrare quanto da Bussaglia detto.

Certamente un critico cinico e sussiegoso, quanto diffidente, potrebbe obiettare che siamo noi, a posteriori, a voler riscontrare e trovare nell’opera d’arte certe coincidenze e certi riscontri che potrebbero, invece, essere solo frutto del caso e in verità questa obiezione sarebbe possibile e verisimile se l’autore della Gioconda non fosse Leonardo, proprio quel Leonardo che, come abbiamo visto collaborò molto attivamente alla stesura del libro di Luca Pacioli, De divina proportione, disegnando le sessanta tavole di solidi geometrici che illustravano e spiegavano le teorie del matematico sulla Sezione Aurea e sulla intrinseca armonia dalla sua proporzione attribuita alle cose.

Una tale collaborazione è di per sé più che sufficiente a dimostrare che per Leonardo la geometria

descrittiva e in particolare l’impiego della Sezione Aurea non dovessero avere misteri di sorta.

Un’ulteriore conferma di ciò la traiamo facilmente da un’analisi “geometrica” delle altre opere di Leonardo, nelle quali è immediatamente ravvisabile la stessa identica ricerca proporzionale.

Nell’Ultima cena, Gesù, il solo personaggio veramente divino, è dipinto con le proporzioni divine, essendo racchiuso in un rettangolo aureo.

Nell’Annunciazione la figura e la postura dell’angelo sono in proporzione aurea rispetto alla sua distanza dalla Vergine

Nella Donna scapigliata la testa è racchiusa in un rettangolo aureo e il volto è in proporzione aurea rispetto al fascio dei capelli. Anche l’inclinazione del capo non è casuale, ma segue la diagonale del quadrato.

E cito per ultima la più geometrica delle opere di Leonardo, L’Uomo, nella quale, l’artista studia le proporzioni della Sezione Aurea, secondo i dettami del De Architectura di Vitruvio che obbediscono ai rapporti del numero aureo.

Nella famosa rappresentazione di Leonardo dell’Uomo di Vitruvio, come tutti ben ricordiamo, la figura umana è inscritta in un quadrato e in un cerchio. Nel quadrato l’altezza dell’uomo a-b è pari alla distanza b-c tra le estremità delle mani con le braccia distese. La retta orizzontale x-y passante per l’ombelico divide i lati AB e CD esattamente in rapporto aureo tra loro. Lo stesso ombelico è anche il centro del cerchio che inscrive la persona umana con le braccia e gambe aperte. La posizione corrispondente all’ombelico è, infatti, ritenuta il baricentro del corpo umano.

Nel De Architectura Vitruvio scrive:

Il centro del corpo umano è inoltre, per natura l’ombelico: infatti, se si sdraia un uomo sul dorso, mani e piedi allargati, e si punta un compasso sul suo ombelico, si toccherà tangenzialmente, descrivendo un cerchio, l’estremità delle dita delle sue mani e dei suoi piedi.

Certamente meno famosa, ma non per questo meno importante e affascinante è la figura dell’uomo di Rutilio il Vecchio, nel quale invece, la figura umana è inscritta in una stella a cinque punte, che come abbiamo già visto è un simbolo tipico caro ai pitagorici.

Una famosa rappresentazione della figura umana, secondo le proporzioni della Sezione Aurea. è rappresentata dalla Venere di Botticelli, nella quale è aureo il rapporto tra l’altezza complessiva di Venere e la distanza dell’ombelico da terra.

Ma tutto questo non deve per nulla stupirci, in quanto l’artista nulla fa di altro, che riproporre e riprodurre ciò che vede in natura.

E in natura il rapporto aureo è riscontrabile in molte dimensioni del corpo umano.

Se moltiplichiamo, infatti, per 1,618 la distanza che in una persona adulta e proporzionata, va dai piedi all’ombelico, otteniamo la sua statura.

Così anche la distanza dal gomito alla mano, con le dita tese, moltiplicata per 1,618, dà la lunghezza totale del braccio. La distanza che va dal ginocchio all’anca, moltiplicata, sempre per 1,618, dà la lunghezza totale della gamba, dall’anca al malleolo. Infine anche nella mano, i rapporti tra le falangi delle dita medio e anulare sono aurei e per quanto ci riguarda più da vicino, anche il volto umano è interamente scomponibile in una griglia i cui rettangoli hanno i lati in rapporto aureo.

La prova più eclatante ed evidente di come il rapporto aureo possa influenzare e condizionare il nostro occhio è fornita proprio dal volto umano, dal quale abbiamo preso le mosse ed al quale ora torniamo.

L’uomo, infatti, ha acquisito e formulato, nel corso della sua evoluzione, un concetto di bellezza che si credeva fosse legato a canoni estetici soggettivi e secondari alla cultura del tempo, e quindi mutevoli, come certamente a prima vista può apparire a chi osservi il fenomeno dal punto di vista storico ed estetico.

Se questo è vero certamente in superficie, ci si sta, invece, orientando sempre di più verso un concetto di bellezza meno mutevole e fisicamente, direi addirittura neurologicamente determinato, conseguente alla proprietà e capacità del nostro cervello di percepire e registrare l’armonia, o viceversa disarmonia, nei rapporti, nelle proporzioni esistenti e sussistenti tra le varie parti del nostro corpo, in special modo nel viso e naturalmente anche in tutto ciò che esiste in natura spontaneamente, o prodotto dall’uomo stesso.

Senza addentrarmi troppo in spiegazioni neurologiche tuttora non del tutto definite e che potrebbero essere noiose, posso accennare che ad oggi sembra che il cervello rappresenti entro di sé i volti che gli occhi vedono, per mezzo di uno schema di attivazione in un’area specifica della corteccia (la regione parietale-temporale) situata quindi più “a valle” nella complessa organizzazione visiva. Gli elementi di tale schema corrispondono a varie caratteristiche canoniche o “dimensioni” astratte dei volti osservati. Ogni qual volta noi vediamo un volto reale, il nostro cervello confronta il volto reale che “vede” con un volto ideale in lui rappresentato e che potremmo chiamare “volto standard”, valutando e catalogando quanto il volto reale si discosti dal volto umano ideale, identificandolo quindi sulla base di tali “differenze”. Non si sa esattamente quante siano queste “dimensioni” astratte e neppure se il loro numero sia eguale per tutti.  Si sa però che nella discriminazione facciale le varie caratteristiche degli occhi e delle loro immediate vicinanze hanno un’importanza predominante, seguite dalle varie caratteristiche della bocca e poi della forma complessiva del viso. Il naso parrebbe avere scarsa importanza, almeno nelle visioni frontali.

Se il nostro povero Cyrano fosse vissuto, soltanto alcuni secoli più tardi e fosse stato a conoscenza di tali ipotesi neurologiche, forse sarebbe stato meno tormentato e meno infelice.

Va da sé che probabilmente il cervello sia anche in grado di cogliere e riconoscere l’armonia insita in ciò che vede e viceversa la disarmonia, reagendo positivamente alla prima e negativamente alla seconda.

Forse proprio in questa sottesa armonia è racchiuso il segreto di ciò che chiamiamo bello. E con questa armonia torniamo alla Sezione Aurea da cui abbiamo preso le mosse.

Esula purtroppo dallo specifico di questo discorso e dai limiti che ci siamo proposti la disanima di come tutta la natura e anche le cose dall’uomo prodotte siano permeate, pervase da questa divina proporzione e dalla armonia ad essa sottesa. E’ sufficiente pensare che la botanica, la fisica, la zoologia, l’astronomia, la musica, tutte in maniera diversa, sono permeate e regolate da questa divina proporzione, responsabile della armonia in esse contenuta. La Sezione Aurea è l’espressione matematica della bellezza della natura: dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande, tutto sembra regolato da perfezioni matematiche, da precisi calcoli predefiniti, applicati dalla piccola chiocciola che vive nel sottobosco all’immensa galassia a spirale che contiene miliardi di stelle. Non può esistere però l’armonia, senza il suo opposto e contrario, la disarmonia. E proprio in questa disarmonia, Cesare Lombroso, il grande scienziato italiano, padre della moderna criminologia, cercò di individuare il segno distintivo della criminalità. Ma questo fa parte del prossimo articolo, se avrete la bontà di continuare a leggerci.

Nella attesa vi forniamo un ulteriore esempio di come la fisiognomica, lo studio del volto, possa aiutarci a scoprire il carattere di una persona, prendendo in esame, questa volta Massimo D’Alema.

Massimo D’Alema

Dall’esame del volto di Massimo D’Alema, la prima caratteristica che si coglie immediatamente e che salta subito agli occhi è l’acuta intelligenza, fine e dotata di un sottile senso logico ed analitico.

Purtroppo questa, ripeto, acuta intelligenza, non è accompagnata da un altrettanto acuto senso critico e soprattutto autocritico che permetta una percezione dei propri limiti.

Ne consegue un tratto di personalità sicuramente interessante, per quanto riguarda l’indiscussa capacità di fredda analisi dei fatti, ma priva di quel sentimento umano, indispensabile per la più profonda comprensione di questi.

D’Alema è una persona fredda sul piano affettivo, con una razionalità che domina grandemente su un quasi inesistente versante emotivo.

Quei pochi sentimenti, comunque forse esistenti e presenti in lui, sono trattenuti e ritenuti, per cui essi già pochi e poco espressi, non compaiono nella sua vita, soprattutto pubblica e poco anche in quella privata.

Definirei la sua, una personalità “stitica” sul piano affettivo ed emotivo.

Da medico non mi stupirei, se soffrisse di patologie a carico dell’apparato digerente, ulcera duodenale, colon irritabile, stipsi cronica.

La vivida intelligenza, non corroborata e suffragata da un altrettanto vivido apporto emotivo, fa di lui una persona che ai più, e non a torto, appare fredda, senza emozioni, a tratti addirittura cinica, nel freddo perseguire dei propri scopi e nella realizzazione dei propri progetti.

A questo proposito D’Alema è una persona capace di aspettare, capace di mettersi da parte e addirittura scomparire temporaneamente, se ciò può essere utile per raggiungere il proprio obiettivo.

E’ un giocatore di scacchi, nella vita, che con freddezza e acutezza, ma soprattutto lungimiranza, studia e progetta le proprie mosse con largo anticipo, non disdegnando di sacrificare una torre o un cavallo, se questo può essere utile a dare, imprevedibilmente ed inaspettatamente scacco matto al proprio avversario. In altre parole una persona che è capace di “entrare in sonno”, come dicono i massoni, anche per lungo tempo, se questo serve alla causa.

E’ una persona disciplinata, molto attenta alle gerarchie, quando si trova in una posizione subordinata, che sa stare al proprio posto, senza sgomitare, ma che utilizza questa disciplina ed autodisciplina, mirando a conseguire il potere, unica sua vera e fondamentale aspirazione.

Vero uomo di “apparato”, capace di salire pazientemente uno ad uno tutti gli scalini gerarchici, senza mettersi troppo in mostra, senza troppo apparire, senza offuscare gli altri, senza costituire, superficialmente un pericolo, ma pronto ad esprimere tutto se stesso, sempre con freddezza, però, una volta che abbia raggiunto il vertice della gerarchia.

In questo, naturalmente e grandemente facilitato dal proprio carattere fondamentalmente freddo e capace di un assoluto dominio sulle proprie scarse passioni.

Uomo dalla forte ideologia, abbracciata, però, anche questa, non con una fede emotiva e passionale, ma con logico calcolo (opportunistico?).

In virtù ed in difesa di questa forte ideologia ed in funzione di “un bene superiore”, caratterizzato dal trionfo di questa, sarebbe pronto a sacrificare e trascurare aspetti umani, che invece fermerebbero altri, o comunque li farebbero esitare, ponendosi dubbi ed interrogativi morali, che invece non credo possano sfiorare il nostro soggetto ed interferire con il suo agire.

Non disdegna gli utili per sé, ma è soprattutto interessato a quelli della causa.

Non lo definirei un uomo etico, ma piuttosto un moralista, per gli altri, ove la “morale” può e deve essere intesa, piuttosto come una disciplina atta a tenere a freno le intemperanze dei singoli, che potrebbero essere disturbanti per la causa.

Una morale, comunque, assolutamente laica e priva di implicazioni con il trascendente, rispetto al quale, ritengo, il rapporto è non di ostilità, ma di un distaccato agnosticismo.

Non disdegna il lusso, ed è da questo gratificato, ma non da esso distolto nel perseguire i propri obiettivi di potere.

Ossequioso e disciplinato con i superiori, può essere sprezzante con i subordinati, di cui disprezza il servilismo, ma dai quali pretende obbedienza assoluta e incondizionata.

Rigido anche con se stesso, nella puntigliosa ed ossessiva osservanza di programmi e progetti a lunga scadenza, ma anche nella minima scansione della propria quotidianità, fatta anche di piccoli gesti e di rituali ripetitivi ed anche essi ossessivi, dai quali non riesce a liberarsi.

Stabile dal punto di vista emotivo, non conosce ampie oscillazioni dello stato d’animo, dalla gioia alla profonda tristezza. Non si coinvolge facilmente, o quasi mai, riservandosi il ruolo di acuto, quanto freddo e distaccato osservatore, affascinato ed attratto più dai “grandi numeri”, che dalle singole ed umili vicende umane, spesso anche misere. Un sociologo, piuttosto che uno psicologo, affascinato ed utilizzatore, piuttosto della statistica, rispetto alle vibrazioni del cuore, o dell’animo.

Fedele, probabilmente, in famiglia, ma più per forma che per reale e sentito attaccamento. Predilige una famiglia di struttura tradizionale, che offre senso di ordine e sicurezza, almeno esteriore.

Non disdegnerebbe “avventure”, purché non andassero ad intaccare, o mettere in pericolo la tranquilla solidità familiare e che comunque sarebbero vissute senza eccessiva partecipazione, o coinvolgimento emotivo.

Molto caparbio, disposto a grandi sacrifici materiali, anche per lunghi tempi, pur di conseguire i propri obiettivi, non soffre grandemente di privazioni fisiche, pur non disdegnando il lusso, se queste sono funzionali ai propri scopi.

Buona cultura, ma piuttosto erudizione, acquisita, ma non interiorizzata. Lo definirei un critico teatrale, piuttosto che un commediografo, un critico letterario, piuttosto che un poeta o uno scrittore, non un pittore, ma anche nelle arti figurative, un critico.

Secondo l’acutissima definizione di Norberto Bobbio di “destra e sinistra”, nel suo aureo ed omonimo libretto, D’Alema è un uomo di sinistra fin nelle midolla, in una neutrale e non partitica distinzione. In questo senso non lo potrei definire certo un libertario, attento, come mi sembra possa essere, più ai fenomeni sociali, che alla difesa della libertà del singolo.

La sua sfortuna? Essere nato e vivere in un paese come l’Italia, approssimativo e improvvisatore, iperemotivo e dai grandi e fugaci entusiasmi, passionale e ben poco razionale e in un’epoca storica come la nostra, di grandi cambiamenti, di crollo e di assenza di forti ideologie, in cui quelle ancora presenti si sono annacquate, snaturate e denaturate, e non sono neppure state sostituite da altre, lasciandoci in un disturbante vuoto ideologico, orfani di fedi in cui credere fermamente.

Peccato. Lo avrei visto più a suo agio e forse anche moderatamente felice, nella Unione Sovietica di Stalin, di Nikita Chruscev, o di Breznev, della guerra fredda e dei blocchi contrapposti, nella protettiva e confortante certezza di un apparato di partito gerarchico e gerarchizzato, alle prese con una miope burocrazia sovietica.

A mio parere vive il dramma interiore, ma neppure questo troppo sentito, di essersi formato ideologicamente e culturalmente, di appartenere ad un partito che, strada facendo, ha dovuto cambiare, almeno apparentemente, forma ed aspetto esteriore, adattandosi al mutare dei tempi e non piuttosto adattare i tempi a se stesso.

Sul piano personale è introverso e in alcuni aspetti anche timido, molto geloso dei suoi pensieri e della sua vita interiore; non si confida facilmente, forse mai. Egocentrico e con una buona dose di fiducia in se stesso, si sente di appartenere ad una elite intellettuale e culturale. Scarsamente comunicativo, può essere anche arrogante e crudele nella freddezza delle espressioni verbali.

Assume spesso toni professorali e potrebbe anche trattare gli altri con sussiegosa sufficienza. Apodittico nei giudizi. Permaloso e non dotato di autoironia.

La sua fisionomia e conseguentemente i suoi aspetti caratteriali, ad essa secondo me sottesi, lo fanno somigliare fortemente a Vladimir Putin.

Che le comuni scelte ideologiche siano la conseguenza di comuni tratti caratteriali?

Quanto sopra è detto sine ira et studio.

Non credo che con Massimo D’Alema potrei essere amico, ma spero sinceramente che non me ne voglia per quanto ho scritto su di lui e che, leggendolo, possa sorridere sotto i baffi, che onorano il suo ed il mio labbro…ma i suoi sono più sottili.

Domenico Mazzullo

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