Ieri mattina, domenica, di buon’ ora, approfittando del dì di festa e della giornata ancora all’inizio, in un raptus di buona volontà domestica e di desiderio di collaborare alle operazioni casalinghe, mi sono recato in cantina ove non discendevo da anni.
Le cantine dei palazzi antichi della Roma post umbertina, come quello in cui vivo sono locali amplissimi, quasi un secondo appartamento nel quale si potrebbe tranquillamente vivere e forse qualcuno lo ha già fatto in un conato di isolamento dal mondo, cercandovi rifugio e consolazione.
Io non cercavo certo questi, recandomici, ma più semplicemente e prosaicamente un oggetto che una volta appartenuto a me, sapevo essere stato relegato in cantina, ma nessuno era più in grado di dirmi dove di preciso.
Con animo sconfortato, ma al momento stesso speranzoso ed anche un po’ curioso di questo mio viaggio nel passato, nel luogo in cui vengono riposti, abbandonati gli oggetti che hanno fatto parte della nostra vita, ma che ora, divenuti inutili o superflui, ma non tanto da essere gettati via, vengono riposti in disordine, accatastati, uno sull’altro, senza ordine e coerenza alcuna, con scarso rispetto e attenzione per la loro dignità personale e per la gratitudine loro dovuta per esserci stati utili o necessari, per essere stati compagni di tratti della nostra vita, mi accingevo a rovistare nel mucchio alla ricerca dell’oggetto che mi abbisognava, quando la mia attenzione fu colpita, rapita, soggiogata, prima che dalla vista, da un odore, caratteristico, sublime, magico, irresistibile, inconfondibile.
Questo odore, ma forse dovrei chiamarlo più propriamente profumo, scaturiva, proveniva, fluiva fuori da una scatola di cartone, che una volta plausibilmente bianca, ora presentava i segni del tempo e della umidità, nel suo colore giallastro diffusamente, ma irregolarmente sparso sull’ intero involucro, sull’intero contenitore, che era custodito, racchiuso, circondato da uno spago altrettanto vetusto, legato a croce sulla scatola e i cui capi si congiungevano a formare un nodo nella cui precisione e regolarità, nella cui accuratezza riconobbi, con emozione e commozione, le dita, informate e mosse dalla estrema e a volte disturbante pignoleria di mia madre, la quale, solo lei, con tale sua e solo sua precipua accuratezza e devozione, avrebbe potuto confezionare un tale involucro per chissà quale prezioso oggetto da riporre e dal quale continuava a provenire quell’odore caratteristico, che riconosciuto nella sua familiarità, non riuscivo a collocare nello spazio e nel tempo, da poterlo individuare con certezza.
Dimentico dello scopo specifico per il quale ero venuto costì e rapito, stregato da quell’odore, con mano incerta e titubante per l’emozione, disfeci il nodo che con tale accuratezza era stato legato da mia madre ed era rimasto intatto per chissà quanto tempo essendo mia madre assente da noi da quasi trenta anni.
Con la sensazione di compiere una profanazione, di violare un sepolcro custodito da secoli, ma ormai incapace, impossibilitato a desistere, sollevai il coperchio lentamente, cercando di ritardare il più possibile il momento magico, ma anche temuto e quasi inconsciamente rifiutato, di scoprire il contenuto della scatola, così gelosamente e accuratamente confezionata e racchiusa.
Intanto l’odore che mi aveva guidato fin lì e che era stato il vero responsabile di questa mia scoperta, si faceva sempre più distinto e percepibile e assieme a questa maggiore intensità si faceva strada entro di me la coscienza, la consapevolezza di un ricordo, della memoria lontana di un passato remoto, trascorso, ma mai dimenticato del tutto e mai scomparso dal mio animo.
Ma intanto il coperchio si era sollevato del tutto e la vista del contenuto della scatola confermò in pieno le emozioni recatemi da quell’odore caratteristico, specifico, inconfondibile, mai più percepito dopo, negli anni successivi, “l’odore di scuola”, ma della scuola come era una volta, nella mia infanzia, nei primi anni ’50, quando essa somigliava ancora tantissimo, era quasi uguale a quella che conoscevamo dalle pagine del “Libro Cuore” di Edmondo De Amicis, che la Maestra ci leggeva in classe.
“L’odore di scuola” come io , mutu proprio, lo chiamo è qualcosa di caratteristico, di inconfondibile, ma al tempo stesso di indefinibile e di indescrivibile e non può essere conosciuto, ma solo e solamente riconosciuto, se lo si è provato in quegli anni ormai trascorsi.
Esso, infatti, non più riproducibile, è formato, secondo i miei studi, da un misto, un coacervo di aromi, fusi assieme in un tutt’uno indivisibile, costituito dall’odore dell’inchiostro con il quale si scriveva, rigorosamente nero, e nel quale, contenuto nei calamai inseriti negli appositi buchi rotondi dei banchi scolastici, intingevamo le penne con pennino a lancetta, penne rigorosamente di legno, la plastica non esisteva e che rispondevano al nome specifico, l’ho scoperto solo dopo, di “canotti”; a questo odore, si aggiunge, si fonde con esso, l’odore della carta dei quaderni, quelli con copertina nera e la costola esterna rossa, che recavano stampata nell’ultima pagina la tavola pitagorica e nella prima il motto latino misterioso “Labor omnia vincit” e accanto a questo quello indimenticabile ed acre del gesso da lavagna con il quale la maestra disegnava su questa le lettere dell’alfabeto.
I puristi ed i nostalgici come me riconoscono in questo “odore di scuola” anche altri effluvi, quali quello della segatura con la quale i bidelli pulivano le aule al termine delle lezioni e quello del cotone spesso dei grembiali di scuola, rigorosamente blu con fiocco bianco per noi maschi e al rovescio, bianco con fiocco blu per le femmine, ma sopra di tutto primeggia sugli altri l’odore caratteristico della carta del libro di scuola che allora, con termine incomprensibile a noi scolari e mai più incontrato si chiamava “sussidiario”.
E fu proprio il sussidiario dei miei anni delle elementari che per primo si ravvisò ai miei occhi e mi fece sussultare di emozione e commozione.
Lo aprii con mano tremante e grande fu lo stupore nel constatare che riconoscevo, come se le avessi viste il giorno prima, le figure che illustravano e accompagnavano lo scritto.
Il libro si apriva naturalmente con la Religione e mi fece sorridere l’immagine severa di Mosè con le tavole delle leggi che tanto timore e soggezione mi incuteva e suscitava.
Sfogliando le pagine, un po’ consumate ed ingiallite con ansia e con mani febbrili giunsi finalmente alla Storia, la mia preferita che in quel libro, trattavasi, infatti, del sussidiario della V Elementare, si occupava della storia del Risorgimento, che fin da allora tanto mi appassionava ed emozionava. Riconobbi immediatamente il disegno a colori di Amatore Sciesa, in catene tra i gendarmi, mentre pronuncia la famosa frase”Tiremm innanz”! e di Ciro Menotti condotto al patibolo dai soldati di Francesco IV a Modena, la cartina a colori della Italia spezzettata, frantumata dal Congresso di Vienna del 1815, e Silvio Pellico nella cella dello Spielberg intento a scrivere “Le mie prigioni”.
Il cuore mi batteva forte mentre riconoscevo i disegni che rappresentavano le battaglie di Solferino e di San Martino, la carica risolutiva dei Carabinieri Reali, il Quadrato di Villafranca, ma anche Carlo Alberto a cavallo e di spalle che si allontanava sulla via dell’esilio accompagnato dallo sguardo comprensivo dell’ottantaduenne Maresciallo Radetzky.
Mentre sfogliavo le pagine però, una immagine che ricordavo benissimo, fissa nella memoria e tante volte ricordata, cercavo con ansia e sollecitudine, mista al timore di non trovarla, di essermi ingannato, di rammentare male, di averla costruita nella mia immaginazione, di averla inventata e mentre mi stavo convincendo della veridicità ed attendibilità di questa ipotesi dolorosa, subdola, perfida, deludente, ecco balzarmi avanti agli occhi, quando ormai già vacillava la speranza, il disegno che tanto cercavo e che tanto mi stava facendo penare.
Era esattamente come io lo ricordavo, al suo posto esatto, al centro della pagina, in bella evidenza.
Rappresentava i “Quattro Padri della Patria”, così recitava lo scritto che sottostava, che sorreggeva l’ovale, ove erano riprodotte, in disegno a colori, le effigi di Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele, Camillo Benso di Cavour e Giuseppe Mazzini, tutti affiancati e sottobraccio l’uno all’altro con lo sguardo fisso rivolto in avanti a rimirare l’Italia libera e unita, la loro creazione.
L’immagine era ed è bellissima, confortante e rassicurante, ma subito dopo l’emozione e la gioia sconfinata di averla ritrovata, esattamente come io la ricordavo, fui colpito improvvisamente dal disagio, allora incomprensibile, ora comprensibilissimo che provavo già da bambino nel rimirarla ed osservarla, confrontandola comparandola con le pagine che avevo studiato e mandato a memoria, ma di cui avevo compreso, credo, bene il significato.
Ricordavo, infatti, che Giuseppe Mazzini aveva trascorso quasi tutta la Sua vita in esilio povero e solo, condannato a morte e ricercato, non solo dall’Austria, ma soprattutto dal regno di Piemonte. Ricordavo che Cavour sempre diceva che avrebbe voluto vedere Mazzini impiccato a Genova.
Ricordavo che Giuseppe Garibaldi era stato ferito in Aspromonte dai bersaglieri italiani schierati contro di Lui, e poi condotto in prigione.
Ricordavo che Cavour e Vittorio Emanuele rispetto agli Altri Due avevano idee diametralmente opposte riguardo all’Italia e al suo futuro.
Come era possibile, mi chiedevo allora, che dopo aver tanto a lungo litigato ed essersi odiati per tanto tempo, avessero fatto pace e si fossero coalizzati per fare l’Italia, Una e Libera?
In virtù di quale miracolo della Storia, già da allora mi interrogavo e mi confliggevo, erano riusciti infine a trovare un accordo, una così meravigliosa sintonia, tale da stare tutti assieme nell’ovale del disegno, sottobraccio l’uno all’altro in una così stupenda fratellanza?
Quell’interrogativo angosciante che turbava l’animo innocente di me bambino, scolaro ingenuo della V elementare, trovò solamente anni dopo una risposta, logica, razionale, esaustiva, ma che recava con sé l’amaro di una menzogna raccontata e creduta e di una delusione cocente.
Con l’animo rattristato da questa rinnovellata delusione chiusi il libro, lo riposi nella scatola bianca, ove lo avevo trovato, religiosamente al suo posto, riannodai lo spago attorno a questa e dimentico dell’oggetto che ero andato a cercare, con animo mesto risalii in casa dalle profondità della cantina.
Mi rinchiusi nel mio studio in rosso, ove quotidianamente ricevo i pazienti e seduto sulla mia poltrona dietro lo scrittoio, che mi separa, mi divide dai pazienti con cui parlo, affranto e dolorante nell’animo chiusi gli occhi con ancora in essi l’immagine dei Quattro Padri della Patria assieme, vista poc’anzi.
Forse mi addormentai, forse sognai, forse delirai, ma forse fu una fantastica, incomprensibile, inspiegabile realtà che mi fu donata come premio e consolazione per quanto avevo poco prima dolorosamente vissuto: Garibaldi, Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele erano lì, davanti a me, in carne ed ossa, nel mio studio e volevano, desideravano parlarmi, parlare a me, a me psichiatra di se stessi, di sé come persone, come esseri umani, al di là ed al di sopra, fuori dal ruolo che la Storia gli aveva affidato e assegnato e nel quale li aveva confinati e relegati, quasi che fossero ora miei pazienti, volendo desiderando essere miei pazienti.
Siccome già si accaloravano e discutevano fra loro, sovrapponendosi l’uno all’altro e avendo loro spiegato che da psichiatra mitteleuropeo aborrivo le invenzioni della psichiatria americana come la psicoterapia di gruppo, dissi con autorevolezza, che avrei parlato singolarmente con ogniuno di loro e avendo constatato essere Giuseppe Mazzini molto sofferente, pallido e macilento, malfermo sulle gambe, detti a Lui la precedenza sugli altri pregandoli di accomodarsi in buon ordine in sala di attesa, senza fare chiasso e disturbare.
Rimasto solo con Giuseppe Mazzini, mi colpì subito di Lui, un personaggio così importante e famoso, la modestia nel vestire e nel portamento.
L’abito che indossava, di buona fattura e buona stoffa era però liso in alcuni punti e lucido, forse per il troppo averlo stirato, rigorosamente nero, lugubre, funereo, così come nero era anche il fiocco che da allora fu detto “mazziniana” che portava annodato sulla camicia bianca il cui colletto era anch’esso liso in alcuni punti. Le scarpe, anch’esse nere naturalmente erano consumate e sulla suola intravvidi un buco.
Dalla Sua biografia, scritta da altri, sapevo che all’età di diciotto anni aveva deciso di vestire sempre rigorosamente di nero, in segno di lutto per le sorti dell’Italia oppressa e che a Londra era stato costretto a vendere il suo cappotto per mangiare. Infatti, era senza cappotto.
Si accasciò stanco sulla poltrona avanti al mio scrittoio e il Suo pallore, illuminato dalla lampada sul tavolo, mi apparve impressionante accompagnato da una magrezza scheletrica visibile e percepibile soprattutto nel viso.
Gli occhi incavati ma mobilissimi, vividi e acutissimi, quasi febbricitanti in un attimo avevano preso coscienza e possesso di tutto ciò che riempiva il mio studio e presero a fissarmi intensamente intimorendomi non poco.
Senza che io lo invitassi, prese a parlarmi con voce grave e un poco rauca da fumo; dal taschino della giacca spuntava un sigaro toscano che lo invitai ad accendere, se gli avesse fatto cosa gradita; invito che accettò immediatamente.
Esordì raccontandomi della Sua infanzia a Genova, di quanto fosse stata importante e presente la figura di sua madre, Maria Drago, alla quale rimase sempre teneramente legato fino a che fu in vita e dell’educazione che Lei gli impartì molto rigida e improntata fortissimamente al senso del dovere, al compimento del quale dovevano essere destinate tutte le nostre forze e le nostre energie. La fede giansenista della madre faceva sì che la casa della sua infanzia fosse popolata tutti i giorni da religiosi, che in essa tenevano salotto in interminabili discussioni teologiche che dopo poco lo annoiavano e lo portavano ad isolarsi nella lettura di libri considerati proibiti e di giornali patriottici che il padre teneva religiosamente nascosti dietro i libri permessi dalla rigida censura, ma che lui nella sua curiosità aveva subito scovato. Nei momenti di distrazione giocava con la sorella, gravemente ammalata e sofferente e alla quale era molto legato da tenero affetto.
Lo scarso rilievo che invece Mazzini riservò alla descrizione di Suo padre, il dottor Giacomo Mazzini, medico-chirurgo, professore di Anatomia presso l’Università di Genova, in contrasto invece con il tempo che dedicò alla figura materna, mi fece comprendere immediatamente come la figura portante della famiglia e anche nell’educazione dei figli, o almeno di Giuseppe, fosse stata evidentemente quella femminile, intensa, carismatica, dominante. Se fossi uno psicoanalista, ma non lo sono, potrei ipotizzare un complesso di Edipo non risolto.
Non lo disse, ma forse a Suo padre, il mio nuovo paziente rimproverava l’aver abbandonato presto gli ideali rivoluzionari e repubblicani, per dedicarsi a vita privata ed alla sua professione interamente.
Forse gli rimproverava intimamente anche l’aver insistito perché seguisse la sua strada, iscrivendosi alla facoltà di Medicina, che però il giovine Mazzini abbandonò ben presto, avendo perso i sensi alla sua prima lezione di Anatomia.
A onor del vero però devo dire che queste sono mie deduzioni, mai da lui esplicitate.
Una bambina, una vicina di casa, del palazzo di fronte lo attraeva moltissimo e con lei, in sua compagnia trascorreva pomeriggi interi, intento in giochi innocenti che però preoccupavano i suoi genitori di animo puritano.
Si chiamava Adelaide Zoagli e si erano promessi reciprocamente che da grandi si sarebbero sposati, ma così non avvenne: Lei si fidanzò e poi sposò un tal Comandante Mameli della marina Sarda e da allora non si videro più.
Il destino li fece incontrare di nuovo quando il figlio di Adelaide, il giovanissimo poeta e patriota, Goffredo Mameli, divenuto famoso, dopo aver combattuto sulle barricate a Milano durante le gloriose “Cinque Giornate”, con un Inno in tasca, accorse a Roma ove si era costituita la Repubblica Romana, dopo la fuga di Pio IX a Gaeta, per difenderLa dai francesi del generale Oudinot.
Adelaide scrisse una lettera al suo amico di infanzia Giuseppe Mazzini, Triumviro della Repubblica raccomandandogli maternamente, in virtù della loro trascorsa amicizia e affidandogli il figlio ma Mazzini che Lo protesse con affetto paterno, nulla poté per risparmiare alla morte il suo Goffredo morto di cancrena, dopo essere stato ferito ad una gamba, pochi giorni prima della capitolazione della Repubblica, cadendo da eroe a soli 23 anni. Una smorfia di dolore ed una trattenuta commozione si disegnarono sul viso terreo di Giuseppe Mazzini mentre rievocava per me la morte di Goffredo.
La morte di Goffredo si aggiungeva nell’animo di Mazzini al dolore e al rimorso per la morte di tanti giovani patrioti che, infiammati dalle sue parole e dai suoi scritti erano morti e sarebbero ancora morti per un’Italia Libera, Unita e Repubblicana, ideale che fallì drasticamente nella terza proposizione, quando la politica espansionistica di Casa Savoia, si appropriò del movimento risorgimentale assoggettandolo alle sue intenzioni di accrescimento territoriale con l’annessione alla Corona dell’Italia liberata dal giogo straniero.
Questo soprattutto tormentava e dannava l’animo malinconico del mio interlocutore improvvisatosi paziente, la morte di tanti patrioti morti invano e il fallimento dell’ideale repubblicano per cui tanto aveva lottato e sofferto.
Chi pensa a Giuseppe Mazzini come a un fanatico idealista, paranoicamente e delirantemente attaccato alle proprie idee e che in virtù di queste rimanendo nella tranquillità del proprio esilio, infiammava l’animo di tanti giovani, mandandoli a morire in imprese inutili destinate a fallire, sbaglia di grosso e fa un grande torto al nostro eroe, che invece aveva il suo animo ricolmo, tormentato da dubbi, incertezze, sensi di colpa, come Egli stesso ebbe a testimoniare in un Suo scritto, ” La tempesta del dubbio”, di cui mi permetto di riportare qui alcuni passi illuminanti:
” Ma in quegli ultimi mesi, io m’era agguerrito al dolore e fatto davvero tetragono, come dice Dante, ai colpi della fortuna che m’aspettavano. Fu la tempesta del dubbio; tempesta inevitabile, credo, una volta almeno nella vita d’ognuno che, votandosi a una grande impresa, serbi core e anima amante e palpiti d’uomo, né s’intristisca a nuda e arida formola della mente, come Robespierre. (….)
Quando io mi sentii solo nel mondo – solo, fuorché colla povera mia madre, lontana e infelice essa pure per me-m’arretrai atterrito davanti al vuoto. Allora in quel deserto mi s’affacciò il Dubbio. Forse io errava e il mondo aveva ragione. Forse l’idea ch’io seguiva era sogno. E fors’io non seguiva una idea, ma la mia idea, l’orgoglio del mio concetto, il desiderio della vittoria, più che l’intento della vittoria, l’egoismo della mente e i freddi calcoli d’un intelletto ambizioso.(…)I fucilati d’Alessandria, di Genova, di Chambéry, mi sorsero innanzi come fantasmi di delitto e rimorso purtroppo sterile. Io non potea farli rivivere. Quante madri avevano già pianto per me! Quante piangerebbero ancora s’io m’ostinassi nel tentativo di risuscitare a forti fatti, al bisogno d’una Patria comune, la gioventù dell’Italia?Donde traeva io il diritto di decidere sull’avvenire e trascinare centinaia, migliaia di uomini al sacrificio di sé e d’ogni cosa più cara?
Non m’allungherò gran fatto ad anatomizzare le conseguenze di questi dubbi su di me: dirò soltanto ch’io patii tanto da toccare i confini della follia. Io balzava la notte dai sonni e correva quasi delirio alla mia finestra, chiamato, com’io credeva, dalla voce di Jacopo Ruffini.
L’animo afflitto del mio nuovo paziente, che avevo conosciuto sempre e solo attraverso i libri di storia e i suoi scritti andava, con mio grande stupore e meraviglia sempre più rivelandosi, a me psichiatra, come l’animo di una personalità molto complessa e per nulla lineare, contrariamente a quanto potrebbe apparire, ma cronicamente e perpetuamente depressa, di una depressione vissuta in silenzio e solitudine, senza mai lamentele o manifestazioni esteriori, una personalità che aveva lottato contro la sua depressione sempre, con un impegno sovrumano, indefesso e disperatissimo, con un lavoro mentale travolgente, sostenuto da un culto direi religioso del senso del dovere, che unico gli forniva la forza di resistere alle avversità, alle ristrettezze, alle cocenti delusioni, alle frustrazioni, soprattutto all’intima solitudine esistenziale nella quale condusse intera la sua vita, seppur circondato da ammiratrici e fedeli seguaci patrioti, con solo un saldissimo principio a sostenerlo, quello del compimento del proprio dovere. “La Vita è Missione. Ogni altra definizione è falsa e travia chi l’accetta.”.
La vita non riserbò a Mazzini gioie, gloria felicità, ma solo la sottile, modesta, impalpabile, insostituibile, incommensurabile soddisfazione di aver compiuto il proprio dovere fino alla fine.
Poche cose lo consolarono e lenirono il suo dolore esistenziale: i sigari, la chitarra e il cioccolato, di cui era ghiotto.
“Il cioccolato ha mille pregi, consola dai fallimenti, dai tradimenti, dalle ingiurie della vita, dalla malinconia per le passioni perdute e quelle mai avute”.
Con questa frase il mio paziente Giuseppe Mazzini, sospirando, si congedò da me, lasciandomi muto, attonito e commosso.
Domenico Mazzullo