Quando, oltre dieci anni addietro, assunsi la direzione di un “Istituto di riabilitazione per malati psichiatrici”, nome altisonante e ottimistico, che in realtà nascondeva la triste e dolorosa situazione di pazienti psichiatrici gravi e molto gravi che per la loro gravità non erano e non sono in condizione di poter vivere in famiglia, o che le famiglie non sono in grado di assistere adeguatamente, situazione resa ancor più acutamente grave dalla chiusura degli ospedali psichiatrici in virtù della “Legge Basaglia o 180” che dir si voglia, ci si trovava in prossimità delle festività natalizie, attese e desiderate, dai pazienti e dal personale di assistenza, come una gioiosa e festosa novità, capace di rompere, o interrompere per un attimo la pedissequa monotonia della vita in una istituzione di assistenza e custodia, ove i giorni si susseguono, uno dopo l’altro, uno eguale all’altro ritmati e scanditi dalle tappe obbligate giornaliere: la colazione in refettorio, il pranzo in refettorio, la cena in refettorio, il rito della doccia mattutina e il riposo notturno, non sempre così tranquillo. Tra queste tappe obbligate, si snoda il peso di lunghe giornate vuote, per i pazienti, da riempire con “attività riabilitative”, che nella migliore delle ipotesi mi ricordavano i compiti che la maestra ci assegnava all’asilo infantile: colorare a piacere interminabili e giganteschi fogli di carta bianca, infilare perline a confezionare improponibili e patetiche collanine colorate, disporre uno sull’altro legnetti colorati a formare pile instabili ed informi, in casi particolarmente fortunati e per i più abili, confezionare cestini di paglia che mai nessuno si sarebbe sognato di utilizzare.
Mi soffermo e dilungo a descrivere questi particolari perchè chi non ha vissuto e non ha visto almeno per una volta queste realtà profondamente e tristemente umane, non può neppure immaginare, non può figurarsi nella mente lo squallore e la malinconia di questi malati, di queste persone che, sofferenti nella psiche e spesso anche nel fisico, conducono esistenze che possono apparire inutili, senza una progettualità nel futuro, paralizzate ed inchiodate in un eterno presente sempre eguale a se stesso, fermo, immutabile, esistenze legate e dipendenti dagli altri per la propria sopravvivenza e per tutto ciò di cui un uomo possa aver bisogno per vivere, incluso in questo anche una affettività che, negata o impossibilitata dai familiari, si affida a persone estranee, che, a onor del vero, cercano in tutti i modi di creare, attorno a questi simili meno fortunati di loro, un calore affettivo e familiare che supplisca quello che non c’è più e forse non c’è mai stato.
Ho avuto la fortuna di assistere a gesti quotidiani e spontanei di grande e semplice affettività, che rincuorano e che lasciano ben sperare sulla sopravvivenza della Umanità, finche sopravvivono tra noi realtà di tale semplice, spontanea, gratuita, quotidiana solidarietà e dedizione affettiva, da parte di chi si dedica, per quello che non è più un semplice lavoro, alla assistenza e alla cura di questi pazienti così particolari.
Pazienti schizofrenici gravemente deteriorati, pazienti Down, pazienti con gravi e gravissime cerebropatie dalla nascita che recano con sé gravissime insufficienze mentali, pazienti incapaci di provvedere a se stessi nelle necessità di tutti i giorni, anche le più elementari, pazienti che hanno rinunciato, non volontariamente, a quanto di più nobile l’umanità possieda, pazienti che sembrano aver rinunciato alla loro dignità.
Quando assunsi la direzione di questo “Istituto di riabilitazione” si era, come dicevo, in prossimità delle festività natalizie, attese e desiderate come ideale, annuale pausa e interruzione di una monotonia quotidiana che ho solo sommariamente accennata e descritta. Momento culminante di tali festività era rappresentato dalla tradizionale, classica recita natalizia, composta di canti e musiche e piccole scene, o poesie recitate dai malati ed aventi, come ovvio e naturale soggetto, la Natività con tutti gli annessi e connessi. Il tutto a beneficio e godimento dei genitori e familiari dei malati stessi, memori di avere un parente meno fortunato, una volta l’anno e ben felici di dimenticarlo di nuovo fino al prossimo Natale.
Consapevole del mio ruolo e dei miei doveri istituzionali mi accingevo a presenziare a questa recita natalizia, sperando ed augurandomi che presto terminasse, inconsapevole che di lì a poco avrei ricevuto una lezione di vita e professionale, ben più importante, pregnante, istruttiva e definitiva, di tutte quelle ricevute negli anni di preparazione universitaria.
Quegli stessi malati che ho cercato di descrivere precedentemente, che ero abituato a vedere quotidianamente, spesso urlanti, pronuncianti frasi senza senso e sconnesse, rinchiusi in un mutacismo stuporoso e in un assoluto ed autistico negativismo, incapaci di provvedere a se stessi, in tutto dipendenti, inconsapevoli di se stessi, incapaci di programmare ogni attività autonomamente, apparentemente anaffettivi, apatici, abulici, rinchiusi in una mimica e in una gestualità ripetitiva e afinalistica, nel momento stesso in cui salivano sull’improvvisato palcoscenico, per recitare la propria parte, per recitare le poche parole di una semplice filastrocca fortunosamente e faticosamente mandata a memoria in mesi di strenui e defatiganti tentativi, improvvisamente, inaspettatamente e miracolosamente si trasformavano, si trasmutavano da oggetti quasi inanimati, bisognosi di ogni assistenza, in soggetti vivi e autonomi, in persone vive, vitali, dignitosamente e orgogliosamente comprese ed immerse nella loro parte e nel loro ruolo, che recitavano con inimmaginabile maestria e inaudita precisione, con piena e totale comprensione e determinazione, in protagonisti per un attimo della scena della vita, che così a lungo avevano disertato nei giorni normali.
Purtroppo l’incantesimo era di breve durata e presto terminava; non appena scendevano dal palcoscenico, non appena abbandonavano la scena, di cui, per un attimo erano stati protagonisti, quelle stesse persone tornavano ad essere dei malati, quegli stessi malati che avevo conosciuto e accudito, rinchiusi nel loro mondo per noi sani, impenetrabile ed incomprensibile.
Ho visto questo incantesimo ripetersi più volte, ogni qual volta si presentava una occasione analoga e simile, tanto da desiderare di ripeterlo e ricrearlo sempre più spesso e più frequentemente, organizzando e promuovendo occasioni analoghe anche in periodi non specificatamente natalizi.
Il culmine venne raggiunto, quando organizzai e misi in scena un “presepe vivente”, con i malati vestiti con i costumi dell’epoca, confezionati opportunamente dal personale di assistenza, ed impersonificanti i pastori, i Re Magi, san Giuseppe, la Madonna l’oste e gli avventori della taverna nella quale la Santa famiglia chiese rifugio, persino il bue e l’asinello.
Tutto fu meravigliosamente perfetto ed il miracolo della Natività, nonché quello attuale della rinascita dei malati ad una nuova dignità, si ripeté ogni volta con straordinaria, inimmaginabile, entusiasmante precisione, funestato solo un anno, da un piccolo e trascurabile ma spiacevole ed increscioso incidente, quando la Madonna impersonificata da una splendida e dolcissima paziente schizofrenica, infastidita dal pianto del bambinello, per quella volta in carne ed ossa, generosamente fornito dal portiere dell’Istituto la cui figlia aveva recentemente partorito, tentò di strangolarlo, ma venne prontamente fermata, nel tentativo di matricidio, da S. Giuseppe, accorso provvidenzialmente in difesa del figlio, seppur putativo. Cercai ad ogni Pasqua di riproporre l’esperienza, ma la proposta fallì ogni anno, in quanto nessuno si trovava disponibile a recitare la parte di Gesù sulla croce.
Rimane, però entro di me ben saldo il miracolo, la magia della transitoria “guarigione” dei pazienti nel momento in cui salivano sul palcoscenico e diventavano attori, per tornare poi ad essere pazienti, nel momento stesso in cui ne scendevano le scalette per indossare di nuovo i panni ed il ruolo di malati.
Tutto ciò è rimasto ed è per me un mistero.
Avevo letto in verità sulle illuministiche esperienze dello psichiatra francese Pinel, in piena epoca della Rivoluzione francese, un Basaglia ante litteram, che aveva liberato dalle catene i ricoverati nel Manicomio di Parigi e li aveva fatti recitare; avevo letto della famosa rappresentazione teatrale messa in scena dal marchese De Sade, ospite dello stesso manicomio parigino, nella quale i pazienti ricoverati recitavano l’omicidio di Marat avvenuto nella famosa vasca da bagno, ricordata anche in un meraviglioso film degli anni ’70 di Waida “Marat-Sade”, avevo studiato delle esperienze terapeutiche dello “psicodramma” di Moreno, ma si trattava sempre di esperienze indirette e di scarsa e libresca pregnanza, ben poca cosa sul piano emotivo ed emozionale rispetto al vedere i pazienti, in costume di scena, trasformarsi e trasfigurarsi in attori, seri, preparati, professionali, perfettamente compresi nella parte loro assegnata, desiderosi di far bene e di accontentare il pubblico ed anche di quel tanto emozionati che rende febbrile e ansiogeno l’attimo che precede l’alzarsi del sipario, il momento magico prima di andare in scena.
Ma come era mai possibile che pazienti così gravemente deteriorati nel corpo e nello spirito, riuscissero a dimenticare in un attimo e per un attimo la loro malattia, la loro grave insufficienza e si trasformassero in attori provetti, per tornare, subito dopo, finita la loro esibizione, ad essere dei malati come sempre, come prima? Era e rimarrà sempre per me un mistero, forse il frutto di una magia, la “magia del teatro”.
Ma se questa magia si realizza in pazienti così gravi e infelici, perché non dovrebbe funzionare ed essere efficace, aiutare anche persone che così gravi e sofferenti, per loro fortuna non sono, ma che sono purtuttavia vittime di condizioni psichiche che li fanno soffrire e che impediscono loro di essere sereni e condurre in maniera appagante la loro vita?
Anche se non mi piace e non mi appare giusto parlare di casi personali, credo che questa volta possa essere opportuno e legittimo fare una eccezione, rammentando e facendo ritornare alla mente le immagini lontane e ormai sbiadite dal tempo, di un giovane studente liceale e successivamente studente di Medicina, che per vincere la propria inquietante e paralizzante timidezza, rapito e soggiogato anch’egli dalla magia del teatro, affascinato dalla figura di Pirandello, che condizionerà la sua scelta di essere psichiatra, calcò anch’egli le tavole del palcoscenico, prima come terapia e successivamente per passione.
La timidezza non fu mai vinta, ma divenne almeno più accettabile e meno paralizzante, meno inquietantemente invalidante.
La stessa terapia che fu valida a suo tempo per me, la consiglio ora, sistematicamente e con maggiore esperienza e convinzione, a tutte quelle persone, sarebbe eccessivo chiamarle pazienti, che sono afflitte, o semplicemente disturbate, da problemi di rapporto, o di relazione con gli altri, che temono il contatto con il prossimo, problemi e difficoltà che a volte raggiungono i livelli di una vera e propria patologia, meglio nota oggi come “fobia sociale”.
In questi casi una scuola di recitazione può essere più utile, proficua e perché no, anche divertente di una lunga, dispendiosa e impegnativa psicoterapia.
E, a questo proposito, mi sento anche di aggiungere una considerazione tratta e scaturita dalla mia esperienza personale e professionale, riguardo alla consapevolezza di noi stessi, delle nostre più profonde emozioni e pulsioni, dei più reconditi meandri, oscuri, del nostro animo, fornitaci e permessa dalla possibilità e dalla necessità di uscire dalla nostra egocentrica soggettività, per entrare, immergerci, penetrare ed invadere la psicologia dei personaggi che siamo chiamati ad interpretare, a portare sulla scena.
Si tratta di un meraviglioso, utilissimo e magico esercizio di spersonalizzazione ed immedesimazione in un altro da noi, in una prova di umiltà e di umana comprensione, utilissima sulla scena, ma ancor più nella vita, una occasione unica ed irripetibile per abituarci, per educarci a comprendere le “ragioni dell’altro”, per abbandonare il nostro infantile egocentrismo e trasformarci in soggetti adulti e consapevoli, atti ad ascoltare ed accogliere chi pensa e sente differentemente da noi.
E mi piace chiudere questa piccola narrazione, questa personale rievocazione di un tempo che fu, ricordando per me e per Voi, Che incautamente mi avete seguito fin qui, la vicenda di una mia paziente a me si era rivoltasi a causa di una depressione che la aveva colpita, quando entrambi i figli, sposandosi, avevano lasciato la casa. “Sindrome del nido vuoto” la chiamiamo noi psichiatri con scarsa fantasia.
Osservandola mentre mi raccontava i suoi dolori e notando in Lei delle spiccate capacità recitative, Le proposi, come terapia e per riempire il vuoto esistenziale che L’aveva colpita, così, spontaneamente e senza pensarci neppure troppo, di iscriversi ad un corso di recitazione.
Sparì, ma alcuni mesi dopo mi giunse l’invito ad assistere al saggio finale di una Accademia teatrale.
Era la mia paziente che si esibiva in una opera teatrale a me molto cara e che ben conosco avendola recitata anche io: “Lo zoo di vetro” di Tennessee Williams.
Per l’età Le era stato assegnato il ruolo della madre, parte difficile e non certo ispirante simpatia.
Era perfetta, meravigliosa, sublime, superlativa. Una attrice nata.
Quando La andai a salutare e a complimentarmi con Lei, visibilmente emozionato e commosso Le dissi: ” Grazie per avermi fatto sentire il profumo delle giunchiglie”.
Lei mi guardò fisso negli occhi, dopo un attimo d’esitazione mi capì, e si commosse anche Lei.
Domenico Mazzullo