Merito = voce dotta dal latino meritum da merere = meritare
Diritto alla lode, alla stima, alla ricompensa dovuto alle qualità intrinseche o alle opere di una persona.
Azione, comportamento, qualità che rende degno di lode, stima, ricompensa.
Forse non è giusto o corretto, o elegante parlare di sé, della propria esperienza, della propria vita, ma quando il discorso è così personale, così intimo e ci chiama in causa così direttamente, risulta difficile non attingere alla propria stessa esistenza, per esprimere un concetto, un pensiero, una convinzione, una fede, che si è andata formando via via, nel corso degli anni, che nel corso degli anni si è maturata, si è strutturata, ha assunto una forma compiuta, organica ed organizzata, è diventata qualcosa che vive di una propria esistenza individuale, al di fuori di noi che la abbiamo generata ed è quindi obbiettivabile e trasmissibile agli altri.
Parlo ovviamente del concetto di “merito”, come io lo intendo, come io lo vivo quotidianamente, come io lo sento entro di me ogni giorno, come lo soffro, anche, perché non è un concetto facile da accettare e sopportare, ma che, una volta interiorizzato, diviene indispensabile, come la stessa aria che respiriamo, alla nostra esistenza, non fisica, ovviamente, ma morale, il che è per me, ancora più importante della prima.
Vivere senza di questo diviene impossibile.
E’ possibile sopravvivere, ma non vivere, come io almeno lo intendo, lo sento, lo sperimento quotidianamente.
E non credo che sia una fortuna, sinceramente, aver interiorizzato e fatto proprio questo principio, chè probabilmente senza di esso si vive meglio, o forse più facilmente, ma quando si viene contagiati da questa malattia inguaribile, da questo microbo resistente ed invulnerabile ad ogni cura, la vita, con esso diviene forse più dura, più aspra, chissà anche più sofferta, ma l’unica possibile, l’unica concessa, l’unica permessa, avendo questo principio come unico punto di riferimento, come unico mentore, assieme, ma al di sopra di altri che pur coesistono con pari dignità.
Per fortuna su questa strada non si è soli, ma tanti altri, forse non sufficientemente numerosi, ci sono compagni, ma soprattutto ci hanno preceduto, sono andati avanti a tracciare il cammino, ad indicarci il percorso, ad illuminarlo con il loro esempio e la loro vita stessa, ma è un cammino che ogniuno di noi deve percorrere singolarmente, da solo, individualmente, secondo un tracciato che ci è dato ed assegnato; dalla sorte, dalle circostanze, dal destino, da Dio? Non saprei rispondere e sinceramente non mi pongo neppure la domanda, alla quale non c’è risposta. So solamente che sento profondamente che questo compito è dato e sta a noi adempierlo.
Da quanto tempo ho questa convinzione e come si è formata entro di me? Come ha assunto questa forma? Da molti, molti anni e il come cercherò di spiegarlo e di raccontarlo, a Voi se avrete la bontà e la pazienza di ascoltarmi; a me stesso ora per la prima volta, per averlo più chiaro e comprensibile.
Io ho avuto, nella vita, la sfortuna di avere un padre fisico, legittimo che non è stato un buon padre, anzi, meglio detto, che è stato un padre assente, sia fisicamente, ma soprattutto moralmente.
Io ho avuto, nella vita, la fortuna di aver avuto un padre, non fisico, non legittimo, ma morale, che è stato per me un grandissimo padre, e lo è tuttora a distanza di tanti anni dalla Sua scomparsa, con la Sua testimonianza, il Suo insegnamento, il Suo esempio, le Sue parole, il Suo affetto paterno verso di me, che non ero nulla e nessuno per Lui, ma al quale ha donato quanto di più prezioso potesse donarmi.
Mi ha insegnato ad essere un medico, ma soprattutto, e ancor più importante, ad essere un uomo. Non so se ci sia riuscito, non sta a me dirlo e non ne sarei capace, ma mi ha insegnato a provarci, a tentare, ogni giorno, senza tregua, senza stanchezza, senza pause, senza dubbi o incertezze, senza paura. Come? Con il Suo esempio.
Si chiamava Claudio Summa. Era un medico, un chirurgo, il primario del reparto di Chirurgia dell’Ospedale S. Camillo di Roma, che io cominciai a frequentare nei primissimi anni ’70 appena iscritto alla facoltà di Medicina, resomi subito conto che ben poco avrei imparato all’Università, ma molto di più in ospedale.
Avevo già deciso che, se ne fossi stato capace, avrei fatto, da grande, lo psichiatra, ma mi ero proposto di frequentare tutti i reparti, per imparare a fare il medico, prima che lo psichiatra, meta alla quale ambivo fin da allora.
Una occasione fortuita, (ma esistono occasioni fortuite?), mi portò “casualmente”, dopo aver frequentato altri reparti, in quello di Chirurgia, branca della Medicina, molto lontana dai miei interessi e che mai e poi mai avrei pensato di praticare tanto a lungo, fino a giungere a quasi specializzarmi in questa, ma è un’altra storia e non voglio divagare.
Venni presentato, io timido, modesto, insicuro, umile studente, al primario, il dottor Claudio Summa appunto, il Quale, accogliendomi, mi disse che quello era un posto nel quale si lavora duramente ed era ben felice di avere due mani in più da utilizzare al tavolo operatorio.
Mi chiamò “collega” e ciò mi inorgoglì enormemente, non avendo compreso, quello essere l’appellativo con cui si rivolgeva agli altri quando non erano nella Sua sfera di intimità.
Mi presentai il mattino seguente alle sette, come mi era stato detto e così tutti i giorni per mesi, nei quali continuai ad essere chiamato “collega” dal dottor Summa, il Quale sempre più spesso mi voleva con Lui, al tavolo operatorio come terzo a tenere i divaricatori.
Un giorno, che mai dimenticherò nella mia vita e che tuttora mi emoziona ricordare, che mi commuove rammentare e che ho ben vivido davanti me, come se fosse avvenuto ieri, rivolgendomi la parola e guardandomi fisso negli occhi, i soli elementi del viso, Suo e mio, che comparivano sotto la bardatura che ci proteggeva il volto, non più mi chiamò “collega”, ma per nome, “Mimmo”, il diminutivo con il quale da allora sempre si rivolse a me, chiedendomi, così semplicemente e apparentemente in modo naturale, di passargli un ferro chirurgico.
Era il Suo modo di comunicare. Era quello il modo per comunicarmi che ero entrato nella Sua sfera di intimità.
Ma non solo, anzi molto di più.
Era il modo di dirmi, senza parole, o giri di frase che sarebbero stati inutili, inappropriati, vuoti e comunque non congeniali in una Persona timida, come Lui lo era, che mi stimava e che mi voleva bene.
Non c’era bisogno di altro, non era necessario altro per capirsi, per comprendersi.
E ci siamo sempre capiti, sempre compresi, sempre voluti bene, per tanti anni, in cui sono stato la Sua ombra, o come diceva Lui, “la sua terza e quarta mano”, fino a che un cancro al polmone, che ahimè fui proprio io a dignosticarGli e comunicarGli, Lo strappò alla vita, ma non a me, che continuo sempre a sentirLo presente, dietro di me, alle mie spalle, nei momenti difficili, quando ho un dubbio, una incertezza, quando cedono le forze e la mala pianta dello sconforto prende il sopravvento.
Allora sento la Sua voce, sempre bassa, sempre pacata, mai urlata, ma sempre ferma e decisa: “Si deve fare”.
Quante volte L’ho sentito pronunciare questa frase, con un tono che non ammetteva repliche. Quante volte la sento ancora risuonare idealmente entro di me, quando mi trovo in un momento di incertezza o debolezza.
Ma cosa c’entrano questi ricordi personali, con il tema che stiamo trattando, quello del “merito” appunto? E’ presto detto.
Si narra spesso, ed è purtroppo vero, che i chirurghi, mentre operano e il paziente è addormentato, per allentare la tensione si raccontano le barzellette, parlano delle loro vacanze appena trascorse, scherzano con le infermiere ed altre amenità del genere.
Ciò non avvenne mai con il dottor Summa, in tanti anni in cui L’ho frequentato, ma nei momenti di pausa, tra un intervento e l’altro, quando ci si riposava un poco, o dopo la visita in reparto, o quando ci si spostava per una consulenza, non perdeva mai occasione per impartirmi, senza farlo vedere, con estrema modestia ed umiltà, come se fossero riflessioni tra sé e sé, ad alta voce e non rivolte ad un interlocutore silenzioso e bramoso di imparare, come io lo ero, lezioni di vita che furono e sono per me preziose e che sono stampate in maniera indelebile nella mia mente.
Spesso erano parole isolate, sguardi silenziosi, ma estremamente significativi, al massimo poche frasi, mai lunghi discorsi, ma precise, taglienti, lapidarie, concise, puntuali, drammatiche nella loro precisione ed acutezza.
Una volta mi disse che odiava i ginecologi, in primis perché fanno nascere le persone e poi perché hanno reso la gravidanza una malattia. Un’altra volta a commento di una inadempienza grave da parte di un paziente disse che per ammalarsi, bisogna essere intelligenti, perché spesso la stupidità è più pericolosa della stessa malattia e ricordo che di fronte ad un grave errore professionale compiuto da un collega per superficialità ed imprudenza, mi disse che le malattie sono pericolose soprattutto perché i medici pretendono di curarle.
Una sola volta, in una circostanza particolare, mi fece un discorso più lungo ed articolato, impartendomi una lezione che da allora in poi ha segnato in modo indelebile la mia vita.
Avevamo appena terminato di operare di urgenza un giovane coinvolto in un grave incidente stradale, ma purtroppo il paziente era morto durante l’intervento stesso, a causa del gravissimo trauma subito.
Mi vide particolarmente scosso e mentre mi toglievo i guanti, assieme a Lui, mi si avvicinò dietro le spalle e come se parlasse tra sé e sé, ma naturalmente rivolto a me disse, ricordo le Sue parole a memoria perfettamente: “Che strano gioco, che strana gara la vita. Corriamo, ci affanniamo gli uni contro gli altri, per arrivare primi, per conquistare un posto privilegiato, per realizzare un tempo migliore, per giungere primi al traguardo e guadagnarci il primo premio. Spesso a questo scopo corriamo slealmente, facciamo lo sgambetto agli altri, li facciamo cadere, per rallentarne la corsa, prendiamo delle scorciatoie non consentite, corrompiamo i giudici perché ci favoriscano, usiamo dei trucchi per ingannare gli avversari, ci vendiamo anche…e non ci accorgiamo che la gara è finta, è falsa, è un inganno, un trucco malefico.
Infatti non ci accorgiamo che veniamo immessi in gara, in pista, quando essa è già cominciata e altri, prima di noi stanno già correndo. Vediamo avanti a noi dei corridori, essere sottratti, espulsi dalla gara improvvisamente, proditoriamente e senza motivo, quando la competizione non è ancora terminata e non è stato raggiunto il traguardo, da nessuno.
Anzi nessuno ha mai visto il traguardo, l’arrivo della corsa.
Per analogia dobbiamo prevedere, anche se ci dispiace ammetterlo, che anche a noi sarà riservata la stessa sorte, di essere estromessi dalla gara, improvvisamente, senza preavviso, senza una nostra esplicita autorizzazione, senza, non dico aver visto, ma nemmeno intravvisto il traguardo, mentre altri continuano imperterriti a correre, noncuranti della nostra sorte, anzi forse in cuor loro felici di avere un avversario in meno.
Purtuttavia tutto questo, visibile, evidente, sotto gli occhi di tutti, non ci permette, non ci induce a riflettere, solo un attimo, sulla assurdità di quanto stiamo facendo, sulla idiozia del meccanismo nel quale ci muoviamo pedissequamente ed acriticamente.
Siamo gettati in mezzo ad una gara già iniziata prima di noi, verremo tirati fuori, estromessi dalla gara stessa, prima che essa sia finita, corriamo tutti per raggiungere per primi un traguardo evidentemente inesistente, eppure tutti continuiamo a correre non rendendoci conto che la corsa è truccata, è falsa, è una impostura.
Crediamo infatti, mio caro, di correre contro gli altri, ma in realtà ogniuno corre da solo, singolarmente, assieme agli altri, accanto agli altri, intersecandosi spesso con gli altri, ma ogniuno da solo con sé stesso, anzi contro se stesso.
La corsa è infatti, almeno io così la intendo, una corsa di regolarità, nella quale ogniuno correndo, cerca di migliorare se stesso, di superare i propri limiti, di sconfiggere i propri difetti, di aumentare le proprie capacità, di limitare e superare, o almeno mitigare le proprie debolezze, di conoscere sempre di più e sempre meglio se stesso, allo scopo di utilizzare al meglio sé e le proprie capacità, di metterle a frutto e che siano utili a sé e agli altri.
E qui il discorso si ampia. Noi corriamo la nostra singola corsa, nella nostra corsia, ma altri vicino a noi corrono la loro singola corsa e spesso le corsie si avvicinano, si intersecano, si incrociano, spesso si sviluppano appaiate, parallele, vicine l’una all’altra, per tratti più o meno lunghi, per poi separarsi, inevitabilmente.
Ora, se è vero che noi corriamo soli, nella nostra singola corsa, ciò non vuol dire che non siamo in mezzo agli altri, che non interagiamo con loro, che ci rendiamo a volte, spesso, responsabili di atti buoni o cattivi verso di loro e ciò non passa inosservato, non è privo di importanza.
Tutto viene registrato, pesato, valutato, giudicato.
Nella nostra corsa ideale, nella nostra vita, ogni attimo di essa viene analizzato, valutato, giudicato, messo agli atti.
A fine corsa, quando si farà inevitabilmente un bilancio del nostro percorso, un bilancio della nostra permanenza qui, un computo delle nostre azioni, delle nostre omissioni, dei nostri atti, delle nostre responsabilità, di quanto bene o male abbiamo utilizzato il tempo concessoci, di come abbiamo interagito con gli altri, che casualmente abbiamo incontrato lungo la strada, se siamo stati con essi generosi o egoisti, prodighi o avari, ogniuno di noi non potrà sfuggire al giudizio, non potrà sottrarsi ad una valutazione finale.
Allora si vedrà chiaramente chi ha saputo, lungo il percorso, migliorare se stesso, lavorare e faticare per uscire dalla gara un pochino meglio, di come vi era entrato e chi invece, in tale tempo si è trastullato ed abbandona la gara come vi era entrato, se non peggio.
A ogniuno di noi sono date delle circostanze, degli scenari di vita, delle occasioni pratiche, degli ambienti in cui muoverci, dei palcoscenici su cui recitare la nostra parte e degli strumenti con cui lavorare ed influire sugli stessi scenari, ma soprattutto su noi stessi, in bene o in male, a libera scelta. Questa continua lotta, questo continuo lavoro per renderci migliori, io lo chiamo merito.
Qui il discorso del dottor Summa si concluse, si arrestò bruscamente, inaspettatamente, all’improvviso, come fosse stato richiamato da una idea improvvisa e fondamentale.
Con aria molto seria e severa mi disse:” Mimmo, ricorda sempre di non perdere mai la Tua dignità. Promettimelo. Ti possono mettere in mutande, ma devi starci con dignità”.
Ho voluto riportare quanto il mio Maestro, mio padre mi disse per spiegare quanto prima ho anticipato.
Ho fatto mia, come molte altre cose, questa lezione che da Lui ricevetti. In questo utilizzare al meglio una occasione data, in questo lavoro continuo e costante per cercare di essere almeno un poco, migliori risiede da allora anche per me, il mio concetto di “merito”.
Ma chi giudica le nostre azioni, la nostra vita? Chi esprime il verdetto finale?
La nostra coscienza, a mio modesto parere.
Quella “legge morale entro di me” che assieme al “cielo stellato sopra di me” riempivano l’animo di Kant di stupore e ammirazione.
Ma per nostra fortuna non siamo soli.
Come dicevo prima molti percorrono la nostra stessa strada con le stesse nostre aspirazioni, ma soprattutto molti ci hanno preceduto, molti sono andati avanti ad esplorare il terreno, ad aprire nuovi passaggi, ad indicarci ed illuminarci il cammino, a porre degli avvertimenti nei passaggi difficili, ad indicarci modalità per superare i tratti più scoscesi, ad esortarci a non mollare, ad incoraggiarci quando cedono le forze e l’animo.
Non posso e non ho tempo per elencarli ed enumerarli tutti, ma posso indicare quelli che per me sono stati più significativi, più utili, di più grande aiuto.
Pongo per primo, primus inter pares Lucio Anneo Seneca, di cui ho letto tante volte e soprattutto nei momenti difficili i “Dialoghi” e le “Lettere morali a Lucilio” e accanto a Lui l’Imperatore Marco Aurelio dei “Ricordi” e poi Platone dei “Dialoghi” che vedono come protagonista il Suo Maestro Socrate e poi Lutero, Giordano Bruno, Galileo Galilei, Cartesio, Tommaso Moro, Severino Boezio, Erasmo da Rotterdam, Voltaire, Cesare Beccaria, Giuseppe Mazzini, Gandhi, Lincoln, Marthin Luther King, Nelson Mandela. Ma anche scrittori quali Kipling, Edmondo De Amicis, Carlo Lorenzini, alias Collodi,(-Davvero,-replicò Geppetto,-perché, tienilo a mente, non è il vestito bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.), Pirandello.
Questi sono i nomi, gli esempi che il mio Maestro mi suggerì e che io ho fatto miei.
Io mi permetto ora di aggiungere il Suo: Claudio Summa.
Domenico Mazzullo