“Io” individuale. “Io” collettivo
Da quando frequentavo le ormai lontane scuole elementari, ho appreso che l’Uomo, inteso come specie, è un animale sociale, ossia possiede come sua naturale abitudine quella di vivere in branco, assieme ai suoi simili, analogamente ad altri mammiferi e deve proprio a questa sua attitudine alla socialità, la sua sopravvivenza come specie sulla faccia della terra.
Non essendo dotato, infatti, di strumenti di difesa e di offesa naturali, come altri animali cosiddetti feroci, l’uomo primitivo dovette imparare, a sue spese, a vivere in gruppi organizzati, per limitare la propria vulnerabilità e la propria debolezza intrinseca, acquisendo sul campo quella abitudine alla organizzazione sociale che sarà per sempre indispensabile alla propria esistenza, ma non solo, anche certamente alla propria serenità e benessere. Non a caso e salvo sporadiche e limitate eccezioni, l’uomo aborrisce, teme e rifugge la solitudine con ogni mezzo e con ogni espediente, considerando questa come una iattura ed una condanna, tra le peggiori, vedi anche e per esempio la pena inflitta ai condannati con la aggravante dello isolamento dagli altri.
Analogamente la misantropia, intesa letteralmente come “avversione morbosa per il genere umano” è da considerarsi, se non una vera e propria patologia, almeno come un disturbo di personalità, meravigliosamente descritto da Moliere nel Suo appunto “Il misantropo”.
Ma in quanto psichiatra, so anche bene come la socialità e quindi la socializzazione, fin dai primi attimi di vita, sia indispensabile, non solo all’ovvio ed evidente sviluppo fisico del nuovo essere venuto alla luce, ma anche e soprattutto allo sviluppo psichico di questi, dalla nascita e per tutto il tempo della sua esistenza.
Il sistema nervoso, come tutti gli altri organi è alla nascita perfettamente formato ed efficiente, ma mentre tutti gli altri debbono solo accrescersi nello sviluppo fisico, il sistema nervoso, per le sue peculiarità specifiche deve soprattutto svilupparsi e maturare, venendo ad acquisire delle peculiarità che alla nascita non sono ancora presenti, ma verranno ad aggiungersi nel corso degli anni, fino alla completa maturità che viene raggiunta approssimatamente attorno ai venti anni, età che coincideva in epoche passate, con la maturità giuridica.
Tutto ciò, avviene, non per mezzo di un aumento numerico delle cellule nervose, che anzi dalla nascita in poi tenderebbero a diminuire, quanto piuttosto ed invece per uno stabilirsi impressionante di nuove connessioni tra queste, che verrebbero a formare un intreccio, un reticolato fittissimo e complessissimo di propaggini, tra una cellula nervosa e l’altra, analogamente e per intenderci, a quanto avviene quando i membri di una comunità, prima estranei tra loro e quindi incomunicabili cominciano ad intessere rapporti sociali, l’uno con l’altro, formando una ragnatela di rapporti umani.
Questo processo affascinante quanto strabiliante avviene sotto l’incentivo e dietro lo stimolo dei rapporti umani e sociali che il neonato comincia ad avere con il mondo esterno, il quale con le sue afferenze verso il sistema nervoso, crea i presupposti perché esso sviluppi queste connessioni tra i suoi membri cellulari. Così si spiega e si assiste allo sviluppo di un linguaggio articolato, nel nuovo essere umano, che alla nascita incapace di esprimersi, lo acquisisce solo ed esclusivamente in presenza di adulti che parlano una lingua. Memorabile è la evidenza di bambini, allevati dagli animali, incapaci di parlare e che lo rimarranno anche una volta inseriti nel contesto umano, se questo inserimento è avvenuto troppo tardivamente rispetto allo sviluppo fisiologico del suddetto centro del linguaggio articolato.
Ma ancora più impressionante è da questo punto di vista lo sviluppo della affettività, che si produce nei primissimi anni di vita e poi non più, per cui bambini deprivati di un adeguato apporto affettivo in questi tempi, non godranno mai più di una affettività matura, ma rimarranno in questo ambito drammaticamente carenti.
Penso per ultimo al tragico fenomeno dell’autismo infantile per cui il bambino che ne è affetto è incapace di entrare in relazione con il mondo che lo circonda, molto più gravemente e totalmente di quanto lo sarebbe se fosse sordo, muto e cieco, costretto a vivere in un mondo tutto suo, impenetrabile agli altri.
Stabilito quindi che l’Uomo è un soggetto sociale fin dalla nascita è anche vero che non troppo tardi dopo questa, il bambino di cui sopra impara o meglio scopre empiricamente il concetto di “Io”, separato e distinto dagli altri in mezzo ai quali vive e si sviluppa.
In poche parole egli scopre di essere una entità a sè stante unica ed individuata, disgiunta dagli altri, seppur a questi vicina e collegata.
Scopre di avere una identità fatta di bisogni, di necessità, ma anche di gusti e di predilezioni, e soprattutto di una volontà, sempre più cosciente e consapevole, che si esprime attraverso desideri, frustrazioni, dolori, ma anche dinieghi e opposizioni alla volontà degli altri da lui.
Basti pensare al bambino che, imboccato dalla madre, serra vistosamente la bocca per opporsi alla introduzione in questa del cibo propinato. Attraverso il “no”, una delle prime parole che acquisisce nel suo lessico e di cui comprende bene il significato, esprime la sua volontà, che per ora può essere solo oppositiva e negativa. E dopo il “no” si impadronisce del concetto di “mio”, concetto che lo accompagnerà per tutto il suo sviluppo anche da adulto.
Mi si perdoni questa esemplificazione e sintesi estrema, ma che mi è utile per giungere alla conclusione che mi interessa, ossia che fin dai primordi della sua esistenza l’essere umano vive e si muove in un perenne conflitto, in una perenne antinomia tra una esigenza di socialità e di pluralità e una opposta e altrettanto legittima esigenza di individuazione, in altre parole il bisogno insopprimibile di essere e divenire sempre di più un individuo separato e distinto dagli altri ed il bisogno di essere assieme agli altri, di immergersi e far parte di una comunità fatta e composta di altri.
Ma a ben vedere si tratta di un conflitto, seppur diffusissimo e comune, purtuttavia fittizio e pretestuoso, in quanto è possibile ad auspicabile essere un “Uno”, in mezzo agli altri, mantenendo la propria individualità e la propria autonomia, anche in una comunità pluralistica.
Detto così sembrerebbe un enunciato semplice e facilmente alla portata di tutti, una verità lapalissiana, nella sua semplicità ed ovvietà, ma purtroppo a ben vedere gli esempi del passato ed ancor più del nostro presente, dobbiamo constatare che tale obbiettivo banale e largamente condivisibile, sia invece di difficilissima, se non impossibile realizzazione, muovendoci noi, sempre nei due territori estremi, senza quasi mai conseguire il risultato di un valido equilibrio, di una equidistanza tra i due poli.
Nel territorio di un Aut-Aut kierkegaardiano, o l’io individuale tronfio ed orgoglioso nella sua prosopopea, pretende di dettare regole e leggi proprie, al di sopra e oltre un consesso civile al quale si sente superiore, vedi il Superuomo di Nietzsche, oppure ed oppositamente decide di auto annullarsi, di scomparire come individuo, annullando e ricusando la propria individualità, per omologarsi e comodamente appiattirsi in una massa informe, ma estremamente confortevole e rassicurante.
Sono questi i due estremi, entro i quali si muove e si realizza la nostra Umanità sempre più frequentemente e diffusamente e in essi si perde e decreta la propria fine e la propria inevitabile dissoluzione, confinandosi o in un esasperato individualismo che nega l’appartenenza ad un tessuto sociale fatto di nostri simili, o in opposizione annullandosi e scomparendo in una massa amorfa, acefala e non pensante, che rinuncia volontariamente ad ogni esercizio intellettuale, reputato troppo faticoso e responsabilizzante, ad ogni pensiero individuale ed autonomo, troppo difficile nella sua individualità.
Sono due estremi che appaiono, a prima vista lontanissimi tra loro e di impossibile coesistenza.
A prima vista, dicevo, perché invece per somma sventura, ahimè molto spesso, si toccano e peggio ancora si sommano e si uniscono, si affratellano in una alleanza sconsiderata che unisce e moltiplica gli effetti deleteri da ciascuno di essi singolarmente prodotti.
Se gettiamo uno sguardo d’insieme alla nostra storia passata, al lento, travagliato cammino che la nostra Umanità ha percorso fin qui, ci balza improvvisamente alla mente, ci coglie drammaticamente nella sua evidenza, l’effetto devastante, autodistruttivo ed inevitabile che questo criminale connubio ha prodotto e produce sulle nostre esistenze.
Vi sono delle epoche storiche, dei periodi della nostra vita trascorsa in cui questa coesistenza tra i due estremi ha prodotto effetti devastanti di cui ancora paghiamo le conseguenze e dai quali, e questo è ancora più tragico, non traiamo o abbiamo tratto insegnamento e ammaestramento, nella nostra stolta e insulsa prosopopea e assenza totale di lungimiranza.
Non è difficile, riconoscere, nel nostro passato collettivo, in epoche storiche trascorse, alla luce di quanto detto in precedenza, gli esempi di quanto sia stato deleterio e drammaticamente devastante, il coesistere, nello stesso momento di figure umane che paranoicamente convinte del proprio valore e della propria sovrumana intelligenza, si sono erette al ruolo di guide, di condottieri, di detentori di una verità assoluta e rivelata, il coesistere dicevo con queste figure, di masse popolari informi e non pensanti, volenterosamente e spontaneamente disposte a rinunciare alla propria autonomia, alla propria libertà di pensiero, alla propria individualità, al proprio diritto di esercitare una critica, seppur nell’ambito di una appartenenza ad una società civile, a fronte di un comodo e a buon mercato vantaggio consistente nel non doversi sottoporre allo sforzo di pensare con la propria testa, di esprimere, in piena autonomia un proprio giudizio e di cui assumersene la responsabilità, di prendere su di sè l’onere di dubbi spesso angoscianti e lancinanti, di fare i conti con la propria coscienza e con i quesiti da essa posti, di voler lottare per le proprie idee, se ritenute giuste, di rinunciare alla propria libertà e qualche volta anche alla vita, per difenderle contro i soprusi e le ingiustizie.
E non occorre andare troppo indietro nel tempo per verificare quanto detto qui sopra.
Sono ancora vivi, seppur avanti con gli anni, e rimasti in pochi i testimoni di quanto è accaduto nella civilissima Europa, poco più di sessanta anni fa e che viene ricordato con l’agghiacciante termine di “Olocausto”, di cui alcuni si ostinano ancora a negare l’esistenza, forse perché è troppo scomodo ricordare, forse perché è sconveniente ammettere che tutto ciò è avvenuto in casa nostra, attuato e permesso da persone come noi, volenterosamente artefici dello sterminio.
Eppure io stesso personalmente ho visto le camere a gas e i forni crematori di Auschwitz; io stesso ho visto e toccato con mano i forni crematori del lager di Therezine, nei pressi di Praga, destinato ai bambini ebrei, ho visto i loro disegni, ho toccato i loro giocattoli di pezza, ho calcato le assi di legno delle baracche ove hanno dormito, prima di essere avviati alla morte. E tutto ciò è avvenuto per opera di persone come noi, come me che scrivo, come Te che leggi queste righe, per opera di persone “normali” come noi, e non di “mostri” come ci farebbe comodo e piacere pensare, persone che nella vita civile, prima di indossare la divisa, e non, si badi bene, quella delle SS, ma quella di soldati della riserva, ossia di soldati troppo anziani per essere inviati al fronte, erano stati contadini, fornai, negozianti, portalettere, maestri elementari, musicisti, impiegati, portieri di albergo, autisti di taxi, buoni e bravi padri di famiglia, affettuosi e generosi verso i propri cari, trasformati in aguzzini torturatori, in spietati e freddi carnefici, solo dal fatto di aver indossato una divisa e di essere convinti di compiere il loro dovere.
Questa fu la sconvolgente realtà che balzò drammaticamente agli occhi di Hannah Arendt, testimone al processo in Israele di Eichmann, “il ferroviere”, il ragioniere dello sterminio, condannato a morte “per aver compiuto il proprio dovere”, come sempre sostenne davanti ai giudici. Questa fu la drammatica realtà che la Arendt chiamò “la banalità del male” nel Suo omonimo libro, fedele resoconto del processo: ”…il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi, né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come già fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente “hostis generis humani”, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male.”.
E sempre a proposito di Eichmann: ” Una mezza dozzina di psichiatri lo aveva dichiarato “normale” e uno di questi, si dice, aveva esclamato addirittura:-Più normale di quello che sono io dopo averlo visitato-, mentre un altro aveva trovato che tutta la sua psicologia, tutto il suo atteggiamento verso la moglie e i figli, verso la madre, il padre, i fratelli, le sorelle e gli amici era non solo normale ma ideale.”.
Della stessa opinione è Primo Levi che nel Suo “I sommersi e i salvati” così descrive i suoi aguzzini: “Erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni non erano mostri, avevano il nostro viso. Erano in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti.”.
Quanta profonda verità nelle parole di Primo Levi, espressa senza acrimonia, senza violenza, senza odio, senza desiderio di vendetta, che pur sarebbe giustificato e compreso, ma con malinconica rassegnazione a quella che appare come una inevitabile condizione connessa alla natura umana.
E di questa natura umana, tornando ai due estremi di cui ho parlato in precedenza, temo entrambi: quello del superuomo che, paranoicamente convinto del proprio valore, si erige e si propone al di sopra degli altri ed alle Leggi, cui in virtù del proprio valore non si sente sottomesso. Uno psichiatra tedesco del secolo scorso ebbe a dire a proposito di questa tipologia umana: “In tempi normali siamo noi che custodiamo lui negli ospedali psichiatrici. In tempi turbolenti è lui che custodisce noi, nelle prigioni, nella migliore delle ipotesi, altrimenti ci elimina direttamente, perché ostili alla causa”.
Ma come psichiatra, anche io, devo confessare che tra i due estremi, ancor più temo il secondo, quello rappresentato dalla massa amorfa, acquiescente e volenterosamente sottomessa, che ha rinunciato, motu proprio, volontariamente e con straordinario entusiasmo a ragionare con la propria testa, a generare e produrre autonomamente un proprio “libero pensiero” ed esprimerlo con libertà e se mi è consentito, anche con orgoglio, con coraggio, con soddisfazione, con la consapevolezza di esercitare un proprio diritto, ma ancor più con la coscienza di esprimere la più elevata, la più affascinante, la più esclusiva prerogativa della natura umana.
Temo questa massa amorfa, perché statisticamente più numerosa, perché più rappresentata numericamente, perché per questo motivo, e non per altri, più potente e più determinante nello stabilire e condizionare i destini della umanità, perché non gestibile, difficilmente educabile, raramente modificabile. Mi si perdoni il pessimismo.
Temo questa massa amorfa perché solo la sua presenza, la sua forza intrinseca, la sua volontà perversa di sottomissione, la sua volenterosa rinuncia a pensare liberamente ed esprimere giudizi propri ed autonomi, la sua spontanea rinuncia a ragionare con la propria testa, la sua velleità autolesiva di sottomissione, permette e consente l’esistenza e l’espressione, il trionfo di quei “superuomini” di cui sopra, che tanti danni e tanti disastri hanno sempre prodotto alla umanità in tutti i tempi ed in tutte le epoche.
“Tutti sono sottomessi, tutti desiderano obbedire e pensare meno che si può: bambini sono gli uomini.” Hermann Hesse.
Ho preso a modello, per esemplificare il mio pensiero, le tragiche vicende della Storia recente e che ci riguarda da vicino nella sua drammaticità ma esempi ed espressioni di quanto sopra detto li possiamo riscontrare oggi come ieri, come ierlaltro e ancora più indietro nel tempo, solo a volerli vedere e riconoscere, superando il naturale disgusto, il naturale fastidio che queste ricognizioni comportano con le loro inevitabili constatazioni e riscontri inappellabili.
Mi viene da pensare, in primis alle religioni, che rispettabilissime nei loro contenuti, divengono o possono diventare veicolo e causa di aberrazioni fideistiche e di fanatismo pericoloso nel momento in cui i fedeli ritengono e pretendono di essere gli unici depositari di una “verità rivelata”, ma ancor peggio e conseguentemente pretendono di imporre questa loro verità anche a coloro che non l’hanno ricevuta o che non la condividono. Gli esempi storici passati e quelli tutt’ora presenti sono evidenti e sotto gli occhi di tutti. Ma il male, è evidente, non è nella religione in sè, alla quale sono libero di credere o non credere, ma nei suoi adepti quando, in forza di questa fede personale, assoluta e totalizzante pretendono che ad essa si sottomettano anche coloro i quali hanno scelto di pensare liberamente e di distinguere la ragione dalla fede, attribuendo a ciascuna dei precisi territori di competenza.
A onor del vero debbo però dire che non tutte le religioni, sono, sotto questa luce, sullo stesso piano, essendo le monoteiste particolarmente vigili ed alacri in questa direzione e tra esse, in ispecial modo quella islamica e quella maggiormente diffusa nel nostro paese.
A titolo personale debbo dire che dieci anni addietro, in occasione del Giubileo del 2000, che da laico mi lasciò del tutto indifferente, rimasi invece, e non favorevolmente impressionato dal fenomeno dei cosiddetti “Papa boys”, giovani che da tutte le parti del mondo conversero qui ed invasero Roma, non per un concerto rock, come forse sarebbe stato più comprensibile e congeniale per la loro giovane età, ma per ascoltare la parola di un Pontefice, che, con tutto il rispetto, certo non si è distinto per apertura e modernità di idee.
Ricordo che in tale occasione stupii e sconcertai una mia paziente religiosissima ed invece entusiasta per questa ondata di giovani oceanicamente convenuta al richiamo del Papa, dicendole polemicamente che mi ricordava e in nulla si distingueva dalle oceaniche adunate della Hitlerjugend in adorazione del Fuhrer o dalle nostrane a Piazza Venezia.
Ma con i dovuti distinguo e le dovute prese di distanza, alla stregua di una “fede religiosa” può essere considerata anche una acritica e non razionale adesione ad una ideologia politica, emotiva ed emozionale, con tutti i limiti ed i pericoli che con tali modalità essa comporta, fino alla evidente ed estrema aberrazione consistente nel concetto che il trionfo della ideologia val bene il sacrificio e la soppressione di esseri umani che ad essa si oppongono. I gulag e il terrorismo sotto tutte le forme in cui esso si manifesta sono una tragica, quanto evidente conseguenza di questo concetto.
L’elenco di tali esempi potrebbe essere lunghissimo e potrebbe andare dallo spettacolo tristemente ed umanamente squallido di un paese che ritrova la sua coesione e la sua identità solo in occasione di una partita di calcio, all’esodo con conseguente controesodo, moderna Anabasi, per le vacanze estive, in virtù del quale masse enormi di popolazione migrano temporaneamente verso gli stessi luoghi per trovare in questi gli stessi problemi che si sono lasciati dietro le spalle, felici di ritornare poi a casa, per ritrovarli intatti. Ma sarebbe troppo facile l’ironia e troppo deprimente la constatazione. Mi limito solo a constatare e confermare che dove la emotività domina sulla ragione, allignano purtroppo sempre questi tipici fenomeni di follia collettiva.
Un ultimo esempio però mi preoccupa e mi atterrisce al di sopra degli altri e mi fa dolore considerarlo: il diffusissimo, universale desiderio di omologazione da parte delle popolazioni più giovani, verso modelli di riferimento stereotipati e tendenti al basso, comprensibile in quella età, ma che raramente è associato e contrastato da un altrettanto intenso desiderio di individuazione, che sempre ha finora fatto da contraltare al primo, nelle epoche precedenti alla nostra. Desiderio di omologazione, che spesso ahimè privo di antidoti ideali conduce al volontario cupio dissolvi nell’oblio della droga.
Ma come medico e psichiatra, non posso limitarmi ed accontentarmi di constatare la malattia, ma debbo necessariamente chiedermene anche le ragioni e la provenienza e tentare una cura.
La ragione, credo, sia semplicisticamente quella cui accennavo in precedenza, ossia il dominio ed il predominio della emotività, della passionalità, sulla ragione, sul pensiero razionale, per due evidenti motivi: lasciarsi andare alla emotività è più gradevole, più appetibile, più comodo, più facile, più immediato e certamente meno faticoso che pensare. Pensare invece è difficile, impegnativo, faticoso, complesso, defatigante, ma inoltre e soprattutto dà risultati meno certi, meno immediati, meno eclatanti, meno affascinanti ed entusiasmanti, meno cogenti e soprattutto meno gradevoli, rispetto alle emozioni. Per questo è più difficile essere scienziati che poeti, o artisti in generale.
Il secondo motivo è anatomico e fisiologico: estremamente semplificando, nello sviluppo evolutivo del sistema nervoso procedendo dagli animali inferiori nella scala biologica, via via verso l’alto, fino ai mammiferi più progrediti e fino all’uomo, in ultimo, secondo quanto ci ha insegnato Darwin,
lo sviluppo delle parti anatomiche deputate alla emotività è più antico ed ha preceduto quello delle strutture nervose deputate al pensiero razionale, ossia, per intenderci, la corteccia cerebrale, che è l’ultima ad essersi formata e si è sviluppata grandemente e prevalentemente nell’essere umano.
Ma le parti più recentemente formatesi, ossia la corteccia, non hanno sostituito quelle precedenti. Semplicemente si sono a queste sovrapposte, come in una casa, che inizialmente ad un solo piano, abbia subito successive sopraelevazioni, risultando infine una casa a quattro piani sovrapposti.
Tutto ciò comporta che le strutture sottostanti continuano ad esistere e funzionare, ma non più autonomamente, piuttosto sotto il controllo delle strutture superiori.
Se queste ultime però perdono il controllo, o volontariamente vi rinunciano, allora quelle sottostanti, prive di supervisione si liberano e agiscono autonomamente.
Mi rendo conto di aver molto semplificato, ma funziona pressappoco così.
Da quanto sopra detto si evince che quando la nostra emotività prende il sopravvento, informando le nostre azioni, i nostri comportamenti ciò avviene perché la corteccia, ossia la razionalità ha rinunciato, volontariamente o meno alle proprie prerogative di controllo e supervisione.
Di qui gli atti impulsivi, gli scatti di ira, la violenza incontrollata, ma anche le decisioni non ponderate, e prese sulla scia delle emozioni del momento, e pure l’innamoramento per un altro essere umano di cui pochissimo o nulla conosciamo, può essere considerato appartenente alla stessa categoria, e per quanto ci riguarda anche la adesione acritica e fideistica ad ideologie vuoi politiche, vuoi religiose, le mode di costume che nascono e muoiono senza ragione, ma vengono seguite pedissequamente dai più e in ultimo il fanatismo incontrollato, spesso culminante con atti di violenza abnormi, quanto inutili e assurdi.
In tutti questi casi le aree del sistema nervoso deputate alla emotività, si sono sottratte al controllo della corteccia cerebrale razionale, o in alternativa questa ha rinunciato ad esercitare il proprio controllo su esse.
La cura? Ovvia, semplice, elementare, a portata di mano: lo sviluppo e il potenziamento sempre maggiore della nostra capacità razionale e di critica, anche di autocritica, naturalmente.
In altre parole lo sviluppo sempre maggiore delle nostre capacità corticali, ossia il “libero pensiero” in tutte le forme in cui esso si manifesta. Lo strumento indispensabile? La cultura, che sola ci permette di distaccarci, di sopraelevarci di liberarci anche dal dominio della nostra emotività.
E mi piace concludere questo discorso, spero non troppo noioso e pesante con alcune parole tratte dalla prefazione del libro di Philip Zimbardo “L’effetto Lucifero” edito in Italia da Raffaello Cortina Editore:
“Zimbardo soprattutto invita a considerare chi davvero possa dirsi eroe. Non Achille, ci avverte, ma Socrate lo è. Il suo coraggio non consiste nell’affrontare il rischio fisico, ma quello civile.
E a noi pare si possa aggiungere che eroe non è l’essere straordinario, capace di uccidere e morire per un assoluto, ma l’uomo o la donna del tutto ordinari che sappiano disobbedire a qualunque assoluto, quando si tratta di non far male, o di impedire che altri lo facciano. Eroe è chi vede il dolore inferto e decide di prender partito.”.
Domenico Mazzullo
Appendice
Essendo un inguaribile bibliofilo, nonché cinefilo ho pensato potesse essere utile una modesta quanto incompleta rassegna di libri e film sull’argomento.
Hannah Arendt La banalità del male ed. Feltrinelli
Piero Bocchiero Psicologia del male ed. Laterza
Philip Zimbardo L’Effetto Lucifero Raffaello Cortina Editore
George Orwell 1984 La fattoria degli animali
Huxley Il mondo nuovo
William Golding Il signore delle mosche
Ray Bradbury Fahrenheit 451
Andrè Schwarz Bart L’Ultimo dei Giusti
Primo Levi Se questo è un uomo I sommersi e i salvati
Nathaniel Hawthorne La Lettera scarlatta
Film
Vincitori e vinti
Il buio oltre la siepe
Espiazione
Diario di uno scandalo
L’onda
Taps Squilli di rivolta
I Diavoli
The Experiment
Kapò
Arancia meccanica
Apocalypse now
L’Uovo del serpente
La Rosa bianca
Monsieur Batignole
Agorà