Dichiarazione d’Amore

Il paziente mi era stato inviato da un mio collega ed amico psicoanalista perché valutassi assieme a lui la possibilità di sottoporlo ad una terapia farmacologia ed eventualmente ad un trattamento mediante l’ipnosi, stante la sua constatazione che tre anni di psicanalisi non avevano sortito alcun effetto, neppure nel senso di un parziale miglioramento della patologia di cui era sofferente.

Il mio amico, come sempre in questi casi, non mi aveva per nulla edotto riguardo ai problemi del paziente, ne tanto meno riguardo alle sue deduzioni ed ipotesi, per non correre il rischio di influenzarmi involontariamente nella diagnosi e conseguente terapia; quindi, del tutto vergine da ogni preconcetto o presupposto alcuni giorni addietro incontrai per la prima volta il signor B il quale visibilmente emozionato e forse intimorito dal colloquio con “uno psichiatra”, mi chiese immediatamente se avessi nulla in contrario, che la moglie, avendolo accompagnato, assistesse alla visita.

Naturalmente non opposi alcun rifiuto ad una richiesta, visibilmente tanto sostanziale per il paziente, anche se insolita, in una persona che a me si rivolge per aiuto, stante la particolarità e spesso singolarità dei problemi umani, i quali richiedono  una assoluta solitudine dei due interlocutori, tra cui si svolge questo particolarissimo dialogo che non ammette spettatori.

Ritenni comunque che esso fosse un elemento importante, da tenere a mente, utile forse nella valutazione complessiva delle situazioni.

Il paziente visibilmente sollevato cominciò a raccontarmi la sua storia, rivolgendosi però, con lo sguardo, più frequentemente alla moglie, sedutagli accanto, che a me, di fronte a lui, dall’altra parte del piccolo scrittoio che ci separava; notai, senza essere notato, la sua mano che quasi furtiva cercava quella della moglie, ricordandomi ed evocandomi l’immagine di un bambino intimorito, o forse meglio terrorizzato, che stringe la mano della mamma, unica, immediata, spontanea ed inalienabile protezione da un pericolo incombente. Sui miei appunti leggo: “Quarantenne, coniugato da venti anni, senza figli, lavora come impiegato  in una piccola industria a conduzione quasi familiare ove si sente “protetto” dall’affetto dei datori di lavoro che o stimano e gli vogliono bene per la sua serietà e dedizione: non riferisce abitudini e passioni particolari se non quella usuale dello sport domenicale comune a tanti.” Una vita tranquilla quindi che scorre su binari retti e forse monotoni di serene e rassicuranti abitudini, fino a tre anni fa, quando questo equilibrio viene rotto dalla improvvisa e “sconsiderata” decisione da parte della moglie, di professione casalinga, di accettare una offerta di lavoro, nonostante il parere sfavorevole del marito.

Come un sasso gettato in uno stagno, muove l’acqua formando cerchi concentrici di diametro sempre maggiore, così questa risoluzione voluta e pretesa dalla signora, rompendo stagnante equilibrio della famiglia, si rende involontariamente responsabile di conseguenze sempre più importanti fino a (questa è una mia deduzione) la “malattia” del mio paziente.

Egli infatti che aveva sempre goduto di ottima salute fisica e psichica, a distanza di pochi mesi dall’inizio del lavoro della moglie ha improvvisamente presentato una gravissima forma di agorafobia (paura incontrollabile degli spazi aperti) con improvvisi e non dominabili “attacchi di panico” che lo coglievano con drammatica evidenza ogni qual volta si veniva a trovare da solo.

Da qui la assoluta impossibilità di rimanere anche per un minuto da solo e la necessità totale che venisse accompagnato in ogni luogo, come un bambino incapace.

Chi ha dimestichezza con questa misteriosa patologia può ben rendersi conto della condizione di totale invalidità nella quale si viene a trovare chi è colpito da questa “malattia” e del gravissimo disagio che essa arreca al paziente ed ai suoi familiari, involontarie vittime “sane” della stessa situazione morbosa.

Tale stato durava ormai da tre anni quando il signor B. è giunto a me per la prima volta; tre anni trascorsi tra sofferenze psichiche e morali ben immaginabili, con un rapporto di lavoro gravemente compromesso dalla propria limitazione, circondato dalla incomprensione dei familiari e degli amici, che non comprendendo la natura e la gravità dei sintomi lo tacciavano di pigrizia, di cattiva volontà, di mancanza di responsabilità, prodigandosi in “buoni” quanto inutili, se non dannosi consigli.

Gravissimamente compromesso era anche naturalmente il rapporto coniugale, nell’ambito del quale ogni forma di dialogo affettivo era abolita e perduta; i coniugi  si scambiavano infatti reciproche violente accuse non lesinandosi cattiverie, riversando lui sulla moglie la colpa e la responsabilità della propria “malattia” e difendendosi lei, con la cruda ma virtualmente vera affermazione “che da tre anni non era più la moglie dell’uomo che aveva sposato, ma la madre di un bambino sconosciuto, non voluto e che oltretutto non capiva. Era già in atto un procedimento di separazione.

I tre anni di psicoanalisi con il amico erano naturalmente serviti a chiarire ed illuminare il paziente e quindi di conseguenza la signora, riguardo alla dinamica della “malattia”; essa infatti non era da considerarsi come tale nella accezione comune del termine, ma doveva essere piuttosto intesa come una “reazione psicologica” comprensibile e sotto alcuni aspetti normale, ad un evento nuovo e destabilizzante. Il rapporto matrimoniale era inconsciamente ed inconsapevolmente vissuto e concepito dal sig. B. come protettivo e rassicurante, quasi relazione figlio – madre piuttosto che maturamente marito – moglie; tutto ciò era naturalmente permesso dalla involontaria complicità del pater, che, come spesso succede aveva accettato questo ruolo e si era totalmente calata nella parte, con reciproca, credo soddisfazione di ambedue.

L’idillio durato per anni e pervaso di questa condizione di reciproco equilibrio, si è bruscamente infranto quando uno dei due ha deciso di “rompere” l’accordo, iniziando a lavorare certamente non consapevole e previdente delle gravissime conseguenze che la sua decisione avrebbe comportato nella economia della famiglia.

Tutto questo discorso, da me brevemente riassunto era ben conosciuto e compreso dal paziente, ma un livello razionale, come se fosse una lezione appresa, mon assimilata; mancava ancora quella “comprensione emotiva” partecipata e sofferta, unica capace di portare ad una risoluzione interna della problematica psicologica, e quindi alla conseguente scomparsa della sintomatologia da essa derivata e derivabile.

Immagino che il mio amico psicoanalista si fosse trovato in tale situazione paralizzata e paralizzante, quando ha proposto al paziente di rivolgersi a me per cercare, se fosse possibile “un’altra strada” visto che la prima appariva interrotta.

Con tali premesse e presupposti al termine del primo incontro, proposi al sig. B. l’ipnosi come possibile alternativa terapeutica, con lo scopo non tanto di cercare ed acquisire consapevolezza maggiori, o più profonde, ché già erano a mio parere sufficienti, quanto piuttosto ad agire direttamente sui sintomi così invalidanti, applicando quella tecnica e procedimento che in linguaggio medico chiamiamo di “desensibilizzazione”.

Essa consiste nell’indurre nel paziente lo stato di ipnosi, utilizzando le procedure specifiche allo scopo, ed in tale stato artificialmente prodotto, di “conoscenza vigile ma terapeuticamente concentrata solo su alcuni contenuti” permettere a lui di “rivivere” le situazioni che inducono le crisi di panico, ma associando ad esse dele sensazioni di serenità e di rassicurazione indotte dal terapeuta; in tale modo la situazione terrorizzante che nella vita reale viene fuggita, costituendo l’oggetto della o delle fobie, viene invece in ipnosi rivissuta ed associata psicologicamente ad una piacevole e rassicurante emozione di calma e rilassamento, in modo tale che essa venga a perdere ogni valenza terrifica ed assuma, per associazione una valenza invece positiva nel ricordo.

Tale procedimento difficile da spiegare sul piano teorico è di semplice  o facile applicazione pratica e nella maggior parte dei casi sortisce un effetto positivo tale da liberare o almeno alleggerire il paziente da una sintomatologia gravemente invalidante e dolorosa. Naturalmente ogni situazione va valutata singolarmente e la applicazione di tale procedimento deve essere preceduta sempre da un approfondito e accurato esame psichico atto a scoprire ed esplicare il motivo per cui tale patologia è insorta e soprattutto il significato psicologico ad essa connesso e sotteso. Tutto ciò era, come abbiamo visto, perfettamente conosciuto e perfettamente compreso dal signor B. ma evidentemente questa comprensione non era sufficiente. Avendo spiegato scopi, modalità e procedimento, della terapia cui intendevo sottoporlo, lo invitai a riflettere da sol, ed a rivederci, in caso affermativo di li a qualche giorno; cosa che appunto è avvenuta ieri.

Anche in questa occasione egli mi ha formulato la stessa richiesta della volta predicente, cioè che alla seduta di ipnosi potesse assistere come spettatrice la moglie; desiderio al quale naturalmente non ho avuto nulla da obiettare, confermandosi anzi dentro di me la ipotesi diagnostica già formulata in precedenza.

Le tematiche per indurre lo stato di ipnosi e in esso, la profondità necessaria per la applicazione di determinati procedimenti, sono varie e disparate e vengono selettivamente scelte dal terapeuta adattandole alla occasione ed alla psicologia personalità del paziente.

Nel nostro caso la induzione della “trance ipnotica” è stata rapidissima, proporzionalmente allo stato di attesa e desiderio del sig. B e rapidissimamente ha raggiunto una profondità tale che mi è stato possibile parlare con lui interrogandolo e dialogando senza naturalmente che si svegliasse.

Nonostante pratichi l’ipnosi da almeno quindici anni, ancora suscita in me una grande meraviglia e stupore la realtà di poter “parlare” non l’Io più profondo del paziente, con quella dimensione personale che in psicanalisi si chiamerebbe Inconscio, saltando le barriere o aggirando gli ostacoli della critica cosciente e razionale, sempre presente e vigile nello stato di veglia.

Per il medico è una esperienza sempre affascinante, ed a me personalmente oltre alle naturali reazioni di interesse professionale, di desiderio scientifico di approfondire sempre di più la conoscenza della nostra psiche, suscita parallelamente ed in parziale antagonismo, un timore reverenziale, una spiacevole sensazione di profanazione, la paura di compiere un sacrilegio, introducendomi ospite non invitato in un luogo sacro gelosamente custodito; mi sento un archeologo, che, mosso dall’interesse scientifico e dal fascino seducente della scoperta, entusiasta per aver individuato la tomba di una persona, si introduca con tutto il bagaglio pesante della sua moderna cultura, nel sepolcro di lui ed illumini con la gelida luce della scienza, i misteri in esso custoditi da secoli.

Con questa duplice sensazione, sempre presente ho iniziato quindi a “dialogare” con il paziente disteso sul lettino ad occhi chiusi, conformemente al mio piano terapeutico di intervento, gli ho chiesto di ricordare la prima occasione, di rievocare la prima volta in cui fosse stato colpito da un attacco di panico; dopo una lunghissima pausa di silenzio, lentamente e con una voce sensibilmente diversa da quella che conoscevo, più profonda e più roca quasi facesse fatica ad uscire mi ha risposto a malincuore: “In automobile, mentre guidavo; mi stavo recando al lavoro, ero tranquillo, ascoltavo la radio, quando improvvisamente “una bomba è esplosa nel mio cuore e nel mio cervello; è stato terribile, come se mille telefoni squillassero contemporaneamente dentro di me, mi sentivo impazzire, mi sentivo che ero sul punto di morire; mi è venuta improvvisamente incontro mia madre morta da tanti anni, che mi ha rassicurato dicendomi che non era nulla, ma io continuavo a stare malissimo volevo urlare per chiedere aiuto, ma la mia gola era stretta in un morsa e la voce non usciva: è terribile, è spaventoso.

Riuscii ad accostare l’auto al ciglio della strada ad aprire lo sportello, sperando che qualcuno, vedendomi, mi soccorresse, ma non si è fermato nessuno.

Piano piano, dopo minuti che sono stati secoli, la morsa alla gola si è allentata ed ho ripreso a respirare e con l’aria dei polmoni, anche la vita rientrava in me; ho cominciato a creder che forse non sarei morto, che forse ce la avrei fatta questa volta, che forse avrei rivisto ancora mia moglie e la mia casa, ma subito dopo mi ha assalito un altro pensiero altrettanto terribile: e se mi dovesse succedere un’altra volta? E se mi ritornasse ancora? Sarei capace di sopportare ancora una volta il panico, di guardare ancora una volta la morte in faccia?

In preda a questo terrore corsi a casa, da mia moglie, mi misi a letto e non ebbi il coraggio di alzarmi per l’intera giornata, come una lepre, braccata dai cacciatori e dai loro cani, che fortunosamente ha guadagnato la tana e li rimane immobile ad assaporare, incredula, lo scampato pericolo”.

Con la voce rotta dalla emozione e con un pallore cereo in viso il paziente, disteso sul lettino, addormentato, mi narrò questo episodio, anzi direi meglio “rivisse” il momento del primo attacco di panico; la partecipazione emotiva, la intensa tonalità affettiva, la sofferenza dimostrata dalla espressione del volto e dai gesti, mi convinsero infatti che egli non mi avesse “narrato” l’episodio ma lo avesse letteralmente “rivissuto” in ipnosi, come se avvenisse in quel momento essendosi realizzato spontaneamente quella situazione particolare che chiamiamo “regressione”.

Essa consiste nel permettere al paziente in stato di ipnosi, o meglio attraverso l’ipnosi di rievocare dalla memoria e rivivere come se fossero presenti ed attuali, episodi e situazioni della propria vita, spesso lontanissimi nel tempo ed “apparentemente” dimenticati o più spesso rimossi perché traumatici o dolorosi.

“E’ come sfogliare”, così mi disse un paziente, un album di vecchie fotografie riguardanti tutta la nostra vita, e ritrovare in esso delle immagini, delle figure, dei volti che erano scomparsi dalla nostra memoria conosciuta, fuggiti nel tempo, ed invece eccoli lì, tutti presenti e sempre vivi con intatta carica umana ed emotiva e capaci ancora e sempre di evocare passioni, gioie e dolori in noi, spettatori ma al momento stesso attori del nostro passato”.

Per me, medico, che ha esperito per primo su se stesso, è una esperienza affascinante

 e commovente assistere ad un paziente, il più delle volte adulto, che in ipnosi rivive episodi della propria infanzia lontana, e con voce trasformata, ritornata infantile, si rivolge ad esempio al padre, deceduto da anni, per chiedergli di giocare con lui, o di aiutarlo a fare i compiti per la scuola. Ricordo con commozione il volto di un anziano magistrato, che in ipnosi, vidi piangere e disperarsi perché il palloncino, compratogli poco prima dalla mamma, gli era sfuggito di mano ed era volato via.

Ritornando al signor B. “in auto” addormentato sul lettino, per evitare che il prolungarsi della esperienza fosse troppo traumatica, lo risvegliai lentamente dallo stato di trance e scoprii, senza meraviglia, che non aveva alcuna memoria di quanto era avvenuto pochi attimi prima, ricordando solo di aver avuto la sensazione di dormire profondamente, ma non certo di aver parlato ne tanto meno di aver immediatamente rivissuto un episodio doloroso e traumatico. Indussi, d’accordo con lui, un nuovo stato di trance, suggerendo questa volta io, la situazione ambientale, “la scena nella quale si sarebbe svolta l’azione: un tragitto in automobile; la mia intenzione era di far rivivere al paziente la esperienza divenuta ormai per lui traumatica ed oggetto di fobia, associando ad essa una sensazione di calma, di serenità, di rilassamento, da me indotta, che scalzasse e sostituisse l’emozione terrifica. Chiesi al signor B. di immaginare liberamente, ma con tutti i particolari possibili, di uscire di casa e dirigersi verso l’auto parcheggiata, salire in essa e mettere in moto il motore; io sarei stato li accanto a lui, invisibile “angelo custode” a rassicurarlo e confortarlo ed a dialogare con lui.

Quando fui certo che egli avesse ben visualizzato la immagine da me suggerita e la avesse ben interiorizzata, lascia a lui la libertà di scegliere la destinazione, di condurmi lui, pregandolo di comunicarmi passo passo tutto ciò che vedesse e le emozioni provocate.

Cominciai ad insospettirmi quando mi disse che l’automobile era una vecchia Fiat Millecento acquistata già usata, ed miei sospetti divennero certezze, quando egli mi annunciò che si stava recando al Colle Oppio ove aveva un appuntamento con la ragazza che amava; sul sedile posteriore, appoggiato delicatamente, un fascio di rose rosse per lei; era un giorno importante; ed era molto emozionato ed in apprensione: le avrebbe chiesto di sposarlo.

Ebbi la certezza, a quel punto che il paziente, questa volta spontaneamente, aveva operato una “regressione” e stava rivivendo ancora di nuovo in ipnosi un momento particolare ed intensissimo della sua vita, risalente a più di venti anni prima.

Con voce rotta dalla emozione egli irruppe nei miei pensieri, violentemente, riprendendo a parlare: “La amo da tanto tempo, ma sono timido e non ho mai avuto il coraggio di dirglielo temendo che mi respingesse, ed allora fino adesso mi sono accontentato di fingermi un amico fedele, devoto, disponibile, ma ora basta, ho deciso, non resisto più nella mia recita e rischiando di perderla per sempre le confesserò il mio amore. Il fascio di rose mi serve per farmi coraggio, per sentirmi meno impacciato, per tenere occupate le mani, che altrimenti non saprei dove mettere. Ho il cuore in gola ma devo dirle che la amo e chiederle di essere mia moglie. Se mi risponderà di si, sarò l’uomo più felice del mondo”. Dicendo questo lacrime di commozione scendevano silenziose sulle sue guance. Un’improvvisa intuizione mi fece girare di scatto; la moglie del signor B. aveva assistito in silenzio, muta, ma partecipe spettatrice, da me dimenticata, e che solo ora mi era sopraggiunta alla mente: il suo viso pallido, sconvolto, commosso e rigato di lacrime, mi fece in un attimo intuire la intensa e violenta emozione che le parole del marito dovevano aver suscitato in lui.

Non ebbi modo ne luogo di dirle nulla, ma i nostri sguardi si incrociarono per un attimo e in quel momento ci siamo detti tante cose, silenziosamente.

Quando sono andati via, li ho seguiti per un po’ con lo sguardo, mentre scendevano le scale del mio palazzo: si tenevano teneramente per mano.

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