Nacqui nel secolo scorso e, come si diceva nei bei tempi lontani, sotto il potere temporale di Luigi Einaudi, Presidente della neonata Repubblica Italiana, e il potere spirituale di Pio XII Pacelli, Papa della, più antica, Chiesa di Roma. Per la precisione, nel “tardo dopoguerra”, nel 1949 e, ironia della sorte, proprio nel giorno in cui entra L’Estate, il 21 di giugno, stagione che ho, da sempre odiato, dal più profondo del cuore, con l’unica eccezione degli anni di scuola, coincidendo essa, con le lunghe vacanze estive, sempre e comunque funestate dalla incomoda incombenza di dover studiare per sostenere gli esami di riparazione a Settembre. In quei tempi eroici esistevano ancora. I miei genitori, già avanti con gli anni ed alla luce dei non proprio brillanti risultati ottenuti dalla loro opera comune, tradottasi nel mettere al mondo la mia persona, decisero saggiamente, di non prodigarsi oltre e misero fine ai loro sforzi, lasciandomi “figlio unico”, condizione che pesò non poco nelle mie scelte a venire, anche professionali. I primi anni di vita furono, come in tutte le infanzie che si rispettino, sereni e relativamente felici, ma fonte di tantissimi ricordi, e non tutti piacevoli, avendo io, fin da allora sviluppata, una attenta capacità di osservazione e memorizzazione, che mi sarebbe stata utile, nella vita a venire. Sul piano emotivo, invece, la mia condizione di figlio unico, forse, ma non solo, mi dotò di una straordinaria capacità di timidezza, che non poche difficoltà mi produsse in quegli anni ed in quelli a venire. Ricordo molto bene il mio primo giorno di scuola, regolarmente a sei anni, ed i giorni successivi, tutti funestati da una profonda tristezza e difficoltà di comunicazione. I nomi ed i volti dei miei compagni di scuola, soprattutto di quei pochi che generosamente mi davano confidenza, sono tutti scolpiti nella mia memoria e nel mio cuore. A tutti loro va la mia immensa gratitudine. Uno di Loro è un mio paziente. Lui non mi ricorda, ma io sì. Come Dio volle, gli anni delle “elementari” trascorsero, lentamente, ed iniziarono quelli delle “medie”, tristissimi e disperati, perché si associarono in essi, tragicamente, i problemi scolastici preesistenti, con i problemi della pubertà e della adolescenza. In quegli anni pensai, varie volte, al suicidio. |
Il mio rendimento scolastico era, infatti, pessimo e altrettanto, i miei rapporti sociali. Ricordo ancora, con terrore, la solitudine che mi attanagliava ed i pomeriggi, sul balcone di casa, trascorsi a contare le antenne televisive, che cominciavano a pullulare sui palazzi di fronte. Erano gli anni di Rita Pavone e del Twist, delle Gemelle Kessler e di Carosello, ma anche gli anni del boom economico e della crisi dei missili a Cuba, che spinse il mondo sull’orlo di una terza guerra mondiale, del “muro di Berlino”di Krusciov e di Kennedy e della Sua tragica fine a Dallas. I tre anni delle medie, (mi fa ancora orrore ricordarli), trascorsero, non so tuttavia come, e mi ritrovai con in tasca, ottenuta non certo per meriti, ma per la misericordia degli insegnanti, la sospirata “licenza media”. Accanto alla misericordia, i miei insegnanti di allora, mostrarono una spiccata lungimiranza, raccomandando vivamente, ai miei genitori, di non farmi proseguire negli studi, ma di avviarmi subito ad un lavoro, essendomi dimostrato completamente inadatto ad ogni attività intellettuale superiore. Chissà che non avessero ragione. Mi ritrovai invece, più per orgoglio paterno, che per maturata convinzione, a proseguire, controvoglia, gli odiati “studi” e nella Scuola, almeno per il momento, certamente meno adatta, ma più prestigiosa: il Liceo Classico. Nei primi due anni di Ginnasio, si ripeterono le tragiche esperienze scolastiche degli anni precedenti, che mi condussero al drammatico epilogo della bocciatura, agli esami di V Ginnasio ed a vivere, per la prima volta, l’esperienza vergognosa di essere “un ripetente”. In questa seconda edizione del V ginnasio e per motivi, ancora a me sconosciuti, la mia mente cominciò a rischiararsi, ad aprirsi, a comprendere ciò, che fino ad allora non aveva mai compreso, mi scoprii, per la prima volta, capace di ascoltare le lezioni in classe e capire ciò che gli insegnanti dicevano, di essere interrogato e saper rispondere. Fu una scoperta ed una esperienza entusiasmante; non la dimenticherò mai. Vennero poi, i tre anni del liceo, altrettanto entusiasmanti. Erano i tempi della “guerra dei sei giorni”, Arabi contro Israele e del fatidico ’68, dei collettivi e delle assemblee interminabili, dei Beatles e di Bandiera gialla, ma anche della invasione di Praga da parte delle truppe del Patto di Varsavia, della “Primavera” di Dubcek , spentasi nello ”Autunno” del generale Jaruzelski, della guerra in Vietnam. I giorni degli Esami di Maturità, storici, a livello personale, coincisero con quelli, storici per l’Umanità, delle impronte del primo Uomo sulla luna: Neil Armstrong-21 Luglio 1969- Apollo 11. |

In quegli anni maturò anche la mia scelta professionale. Fin dalla infanzia, avevo sognato di fare il poliziotto e quindi, di dedicarmi agli studi universitari di Giurisprudenza, indispensabili per quella professione. In I liceo, la scoperta della Chimica, della Biologia e delle Scienze in generale, mi appassionò talmente, da farmi rinunciare, d’un balzo, a questo sogno, fin lì nutrito e mi indusse la certezza, che mi sarei dedicato agli studi di Medicina. In questa scelta, determinante fu la presenza e la figura della mia Professoressa di Scienze, vero primo Mentore della mia vita. Ma perché proprio la Psichiatria? La colpa fu, a pari responsabilità, della RAI e di Luigi Pirandello. Pur essendo insegnanti elementari entrambi e quindi di discreta cultura, i miei genitori, non avevano molta passione per il Teatro, espressione artistica che invece, forse per antagonismo, fin da allora mi affascinava. Ogni Venerdì sera la RAI trasmetteva, ancora in bianco e nero, un’opera teatrale: “Il Teatro del Venerdì”, appunto. I miei, annoiati ed assonnati andavano a letto, mentre io rimanevo in piedi, affascinato, fino al termine. Ricordo con precisione, la fatica e l’impegno procuratomi dalle Tragedie greche ed il piacere di “Casa di bambola” di Ibsen, di “Come le foglie” di Giacosa, del Teatro di Eduardo De Filippo. Ma un Venerdì sera di Febbraio del ’67, andò in scena, “Così è…se vi pare” di Luigi Pirandello per la Compagnia de “I Giovani”. Fu una folgorazione. Trascorsi la notte insonne, affascinato dalle tematiche che, per la prima volta, si affacciavano al mio orizzonte e che, poi, avrebbero costituito materia del mio quotidiano. Il mattino dopo la scelta era fatta. “Se farò il medico, farò lo psichiatra”. Lunghi anni e sentieri tortuosi, si interposero tra quella decisione e la realizzazione di quel sogno, ma quindici anni dopo, nel Luglio del 1982, nella Università di Pisa, il sogno si realizzò e conseguii la tanto sognata Specializzazione in Psichiatria. Quindici anni, in cui si succedettero, si accavallarono, si avvicendarono, si sovrapposero, accadimenti, esterni ed interiori, che determinarono, modellarono, plasmarono e condizionarono la mia vita, dandole quella impronta, che tutt’ora possiede. Gli esami di Maturità, superati dignitosamente, segnarono uno spartiacque, tra una vita adolescenziale, ancora piuttosto ingenuamente affrontata e l’inizio di una vita universitaria, che mi proiettò, bruscamente, in un mondo adulto, al quale anelavo. Iniziai a seguire le lezioni universitarie, come tutti gli altri studenti di Medicina, ma parallelamente ed a titolo personale, grazie alla conoscenza con un medico, ebbi modo di poter frequentare l’Ospedale S. Camillo di Roma, ambiente affatto diverso, da quello accademico universitario e nel quale, venni, immediatamente e bruscamente, a contatto con la vera sofferenza dei malati, la vera, dolorosa realtà di una vita, fin lì solo di sfuggita intuita e raramente incontrata. Credo sia stato quello, il momento in cui passai il guado, tra una adolescenza, studentescamente prolungatasi fin lì e l’inizio di un’età adulta. Erano gli anni delle Brigate Rosse, della strage di Piazza Fontana a Milano, di Pietro Valpreda, di Bartolomeo Pinelli e del Commissario Calabresi. Gli anni della strage alle Olimpiadi di Monaco. E fu, in quell’ambiente ospedaliero, che feci la conoscenza, che avvenne l’incontro con la Persona, Che maggiormente ha influenzato, condizionato, diretto, informato la mia esistenza e Che continua ad illuminarla tutt’ora, con il Suo ricordo, a distanza di venti anni dalla Sua morte. Non avendola in casa, ero alla ricerca, direbbe certamente uno psicoanalista, di una figura paterna di riferimento. La trovai nel dottor C.S. il Primario del reparto di Chirurgia di quell’Ospedale e Lo “adottai” come padre. Fui ricambiato con una parallela “adozione”, da parte Sua come un figlio. Forse anche Lui era alla ricerca di una figura filiale. Si stabilì un connubio strettissimo e profondo, tra me, semplice studente di Medicina e Lui, importante e stimatissimo Primario. Divenni la Sua ombra. E’ stata, senza alcun dubbio, la Persona più importante nella mia vita. Mi ha insegnato, con le Sue parole, con i Suoi silenzi, con il Suo esempio, ad essere un medico, ma soprattutto mi ha insegnato a diventare un uomo. Tutt’ora, in tutti i momenti difficili, mi chiedo idealmente, cosa Lui farebbe, al mio posto, cosa Lui mi direbbe. E ricevo sempre una risposta. Trascorrevo, assieme a Lui, ore e ore al tavolo operatorio e, affascinato dalla Sua persona, avevo messo da parte l’idea primitiva della Psichiatria, ritenendo che mi sarei dedicato alla Chirurgia sotto la Sua guida. Intanto i miei studi universitari proseguivano regolarmente, fino a che….quando ero ormai quasi prossimo alla Laurea, fui colpito da una profonda depressione. Il grave stato di prostrazione, in cui ero caduto, interruppe bruscamente i miei studi, non riuscendo io più e per nulla, ad applicarmi ad alcuna attività intellettuale e a sostenere quindi esami. Mi sentii precipitare, di nuovo, nella oscura, buia atmosfera degli anni in cui avevo collezionato i peggiori insuccessi scolastici. Si riaffacciavano prepotentemente i fantasmi di un triste passato. Questa situazione si prolungò per due anni, nel corso dei quali, avevo ormai abbandonato ogni speranza di riuscire a diventare un medico e, all’insaputa dei miei genitori, che ancora speravano in una illusoria ripresa, avendo io vinto, non si sa come, uno specifico concorso, militai nei Vigili Urbani. Inaspettatamente guarii, ripresi con grande difficoltà a studiare, sostenni gli esami che mi mancavano e nel Marzo del 1977 mi laureai in Medicina, con una Tesi di Chirurgia, nella stesura della quale, naturalmente, mi fu vicino il mio Maestro. Ma il mio destino aveva subìto una svolta. Gli anni di depressione, l’esperienza su me stesso, di quanto possa essere dolorosa, devastante e destrutturante la malattia della psiche, risvegliò, ma non si era mai sopita, e con uno spirito ed un interesse ancor più accresciuto e forse arricchito, la passione per la Psichiatria. Avevo preso la mia decisione, che però mi appariva, nel mio intimo, come un tradimento, come una ignobile ingratitudine, nei confronti di Chi, tanto mi aveva insegnato. E, ancora una volta, il mio Maestro mi venne in soccorso. In un piovoso pomeriggio, che mai potrò dimenticare, avendo intuito, non so ancora come, le mie ambasce, ma anche la mia decisione, mi prese da parte e mi disse: “Vedi, Tu hai il coraggio di fare, ciò che io, a mio tempo, non ebbi coraggio di fare. Anche io volevo fare lo psichiatra, ma il contatto con la malattia mentale, con il malato di mente, mi terrorizzò a tal punto, che scelsi di fare il chirurgo. La tua strada è quella che senti. Io continuerò ad esserti vicino con affetto ed ammirazione”. Le Sue parole sciolsero ogni dubbio e pochi mesi più tardi, vinsi il concorso per la Scuola di Specializzazione in Psichiatria all’ Università di Pisa. Pochissimi giorni dopo il conseguimento della Laurea e della, immediatamente successiva Abilitazione, iniziai la mia professione di medico. La necessità economica di lavorare subito, mi aiutò enormemente, nel superare il terrore panico che immediatamente mi attanagliò, nel constatare che, da un giorno all’altro, ero passato dalla comoda condizione di studente, senza alcuna responsabilità, alla pesante condizione di Medico, con grandi responsabilità, nei confronti dei malcapitati che a me si sarebbero rivolti. Forse i primi pazienti che curai, non si resero conto della mia inesperienza e del mio conseguente terrore. O forse sì, ma fecero finta di niente. Li ricordo tutti perfettamente e i loro volti sono bene impressi nella mia memoria. Non finirò mai di essere Loro grato per la comprensione avuta verso di me. Iniziai la mia professione come Medico Condotto. Allora esisteva ancora questa figura di medico, che ricordava da vicino, il dottor Andrew Manson de “La Cittadella ” di Cronin. Forse la quotidiana realtà professionale, fu meno “eroica” della letteraria fantasia, ma fu egualmente entusiasmante, per il grandissimo patrimonio umano di cui mi sentii partecipe e dal quale fui inestimabilmente arricchito. I miei Pazienti mi chiamavano “il dottorino” per la mia giovane età e conseguente inesperienza ed affettuosamente, ancora mi chiamano così, quando ancora a me si rivolgono, adesso che così giovane non sono più. Fu una esperienza indimenticabile, sul piano professionale, ma soprattutto umano, che mi arricchì grandemente ed al termine della quale, sentii che ero diventato un medico. Durò due anni. Lasciai, con immenso dolore e nostalgia, la mia Condotta ed i miei Pazienti soprattutto, per fare il medico in una struttura psichiatrica. Ritenni che questa scelta, per quanto dolorosa, sarebbe stata utile, assieme alla scuola di specializzazione a Pisa, per imparare a fare lo psichiatra. Ancora oggi penso, che fu una scelta dolorosa, ma giusta. Fu una scelta, che inaspettatamente ed imprevedibilmente, ebbe un importantissimo risvolto, anche sul piano personale. In quella struttura, , conobbi Ana, una paziente, che dopo solo pochi mesi divenne mia moglie. Fu un matrimonio molto felice, non allietato dalla presenza di figli, a causa della malattia di Ana, quella stessa malattia che La indusse a lasciarmi definitivamente e per sempre, nel 1985, a soli ventisei anni. Per venti anni ho trascorso la mia vita da solo, riempiendo le mie giornate con il lavoro di psichiatra, e le mie altre passioni, cinema, teatro, amicizie, fotografia, lettura e anche, per la sofferenza degli altri, incaute e immodeste prove di scrittura. Suscitando lo stupore e la acuta preoccupazione di chi mi voleva bene e non essendo quella culinaria un’arte a me gradita, in questi anni mi sono nutrito di carne in scatola, sperimentata ed apprezzata in tutte le marche esistenti sul mercato, di frutta, prevalentemente albicocche e solo la domenica mi concedevo qualcosa di cucinato, sotto forma di risotti precotti in busta, possibilmente e preferibilmente scaduti. Inaspettatamente, dopo venti anni di assoluta solitudine, la mia vita si è incrociata con quella di una biologa nutrizionista, la dottoressa Tiziana Stallone, la quale, inorridita ed impietosita dalle mie miserevoli condizioni di alimentazione, ha incautamente deciso di prendersi cura di me, e non solo dal punto di vista alimentare, unendo alla mia la sua vita professionale e personale. Nel febbraio dell’anno 2005 ci siamo uniti in matrimonio e da quel momento ho dato l’addio, non senza commozione, alle mie scatolette di carne ed alle mie buste di risotti scaduti. E qui vorrei fermarmi, perché il progredire oltre, costituirebbe solo un inutile, noioso elenco di lavori, di incarichi, di compiti, che poco aggiungerebbero alla conoscenza della mia persona ed annoierebbero inutilmente Chi, incautamente, fin qui mi ha letto. Nelle mie intenzioni, era solo delineare e delimitare gli eventi, esterni ed interni, che mi hanno portato ad essere quello che sono ora. |

Spendo solo
alcune altre, poche parole, riguardo ai miei interessi:
Essi sono rappresentati, soprattutto e prevalentemente, dalla mia professione,
in senso lato, e gli altri, che come si può vedere si evincono facilmente dai
contenuti del sito, sono ad essa associati e da essa derivabili.
Primus inter pares, il Teatro, cui debbo il merito inalienabile, di aver
provocato, forse senza volerlo, la decisione di dedicare la mia vita alla
psichiatria.
L’interesse per il Teatro è stato però preceduto da quello, altrettanto intenso
e totalizzante, per il Suo figlio minore, il Cinema.
Anche al Cinema, debbo tantissimo, in termini di gratitudine, per aver influito
in maniera predominante e quasi assoluta, sulla mia educazione, in special modo
morale e civile.
Come ho detto in precedenza, la figura genitoriale paterna è stata, nella mia
vita, piuttosto carente. Alla memoria di mio padre, va il mio pensiero, con grande
affetto e nessun rancore, anzi con la gratitudine per avermi fatto conoscere ed
amare il Cinema.
Costretto da mia madre, egli, nei lunghi pomeriggi domenicali, si assoggettava
alla funzione paterna di recarmi con sé a passeggio, ma evidentemente, essendo
la mia compagnia, forse, di non piacevole gradimento, mi parcheggiava, da solo,
in un cinema, mentre lui si dedicava ad altre cose.
Essendo le Sue incombenze, forse, lunghe ed impegnative, la mia permanenza nel
cinema, si protraeva per più ore, consentendomi così di vedere lo stesso film,
per due, anche tre volte di seguito e poterne quindi recepire bene ed
altrettanto bene memorizzare, il messaggio in esso contenuto.
Erano i tempi gloriosi dei film western di John Waine, di James Stewart, di
Gary Cooper, di GregoryPeck, di Burt Lancaster e di Charlton Heston: “Ombre
rosse”, “Mezzogiorno di fuoco”, “Quel treno per Yuma”, “La battaglia di Alamo”,
“Cavalcarono insieme”, “Un dollaro d’onore”, “Soldati a cavallo” e tanti altri
bellissimi, diversi tra loro, ma accomunati tutti, dallo stesso messaggio di
onore, fedeltà, senso del dovere, coraggio, trionfo del bene sul male.
Erano film, in cui era racchiusa e direttamente comunicata, una netta e
facilmente percepibile distinzione manichea tra “bene” e “male”, tra “buoni” e
“cattivi”, tra “vincitori” e “vinti” e questo appagava mirabilmente la semplice
fantasia di un bambino, alla ricerca di chiare e nette certezze: I bianchi
erano sempre e comunque buoni, gli indiani sempre cattivi; un esempio per
tutti: i “ragazzi vestiti di blù” del VII Cavalleria del Generale Custer,
contro gli indiani a Little Big Horn.
Solo successivamente, negli anni ’70, giunsero “Un uomo chiamato cavallo”,
“Soldato blù” e “Piccolo grande Uomo” a cambiare le carte in tavola ed a
confondere le idee, per cui i “buoni”, divennero improvvisamente “cattivi” e
viceversa.
Ma c’era stato il ’68 ed erano gli anni della guerra in Vietnam.
I film che maggiormente hanno influenzato la mia educazione?
“Ombre rosse”; “Mezzogiorno di fuoco”; “Un Dollaro d’onore”; “Il buio oltre la
siepe”; “Soldati a cavallo”; “Il massacro di Forte Apache”, “Le quattro piume”.
Qualche anno più tardi è nata la passione per la Lettura, per la Storia, per la Fotografia,
rigorosamente in bianco e nero, per la musica classica.
Post scriptum, anzi, meglio detto Post mortem:
Comunemente quando si scrive una propria biografia, naturalmente in vita, non si pensa a noi stessi dopo, dopo la morte, che anzi viene ignorata, o come diciamo noi medici scotomizzata, ma, essendo io una persona prudente e previdente e volendo risparmiare ai miei cari l’incombenza dolorosa di dover decidere per me, ritengo opportuno esprimere le mie volontà per il “dopo”: sono assolutamente favorevole all’eutanasia e sinceramente sarei grato a quel coraggioso che la praticasse nei miei confronti, se non fossi più in grado di provvedere da solo a por fine ad una vita non più degna di chiamarsi tale e di essere vissuta. Ma se questo non fosse proprio possibile, desidero che non venga praticato nella mia persona alcun procedimento atto a prolungare la vita. Desidero che i miei organi, ancora utilizzabili, vengano donati e che il resto del corpo venga cremato, a risparmiare spazio utile.
Mi definisco assolutamente laico ed agnostico, ma dopo il rifiuto della Chiesa cattolica di concedere a Piergiorgio Welby i funerali religiosi come da lui desiderato, in quanto macchiatosi dell’orrendo delitto di chiedere di por fine ai propri giorni essendogli la vita divenuta invivibile, ho chiesto ed ottenuto di essere sbattezzato, non volendo più appartenere, neppur formalmente, ad una Chiesa che predica, ma non conosce il perdono.
Non ho quindi diritto, ma non li vorrei, ai conforti e ai funerali religiosi e i miei amici, se lo vorranno, potranno salutarmi nel luogo convenuto. Nel luogo ove verranno custodite le mie ceneri vorrei fosse scritto, ciò che lessi su una tomba romana:”Non c’ero, ci sono stato, non ci sono più”.